“STOCCAFISSO IN SALSA VERDI” PER PALATI FINI"
(Nello Colombo) L'uroboro è servito. Come un palindromo perfetto all'infinito. O come uno “Stoccafisso in salsa Verdi” che chiude le “Quattro Stagioni” della fervida penna di Lorenzo Della Fonte.
L'inizio, come sempre, è nella fine. La stoccata vincente sibila epica oltretasto, al di là dell'estrema vertigine di un'ascensione gloriosa sul ponticello di uno Stradivari in stato grazia che vibra di accenti divini, come il respiro rattenuto di un Übermensch sospeso sull'abisso in attesa dell'estremo volo. La narrazione del nuovo romanzo dell'eclettico artista valtellinese è appena finita sull'ultima riga che chiude la concitazione asmatica del finale a sorpresa di un avvincente giallo “chartreuse” che si picca d'essere un po' noir. Ma la soluzione enigmatica non sigilla ancora il cerchio pixellato del labirintico puzzle incastrando l'ultimo tassello utile, uscendo così da inutili congetture su strani furti che preludono all'omicidio, quasi nell'espunsione millimetrata di una partitura inespressa interdetta all'esecutore. L'ultima fatica letteraria del musicista Lorenzo Della Fonte si chiude con uno “Stoccafisso in salsa Verdi” che suona come un “Viva Verdi”, acronimo di “Viva.Vittorio. Emanuele. re. d'Italia”, in cui si rinnova la vis risorgimentale dei rigurgiti patriottici di un'epoca. Espressione dei Carbonari del momento. L'ultima pagina sembra mettere finalmente fine al naufragio incolpevole delle illazioni su un fotofinish decisivo come un Var supplementare di una Champions Leage. Eppure i giochi non sono compiuti. Su tutto, l'austero titano del podio dalla ricercata raffinatezza e il nerbo assoluto della direzione orchestrale, il divino interprete wagneriano e beetheviano, Arturo Toscanini, fedele interprete dell'epopea lirica della drammaturgia italica, quell'old man, l' '”Artista dei Due Mondi” che ha visto Gershwin spellarsi le mani per lui alla direzione della N.Y. Philarmonic. Irriducibile, indocile direttore sfuggito alle maglie del potere costituito della tirannide mussoliniana (quella delle adunate oceaniche del primo impero etiopico e dell'epopea della propaganda musical-cinegiornalistica), e alle recrudescenze esagitate e scomposte di facinorosi in camicia nera che, come in una nuova Anagni, consumarono a Bologna l'estremo misfatto di uno schiaffo che echeggiò nel mondo intero come un'onta insopportabile per il regime del Ventennio. Protagonista dell'opera, dunque, stavolta, non è ancora l'intuito lungimirante del carismatico ufficiale dei carabinieri Giovanni Bassan, né la sua dolcissima eroina armata di Leika, la bella americanina Silvia, innamorata dei grattacieli e del clamore del mastodonte dell'economia mondiale, alla ricerca dell'immortalità fotografica degli epigoni dei grandi compositori degli ultimi secoli. “Stoccafisso in salsa Verdi” è romanzo semiepistolare celebrato tra i dolci declivi marchigiani e l'arroventato baillame della metropoli newyorkese. Un Verdi tirato per il bavero, mentre uno “chef d'oeuvre e d'haute cuisine” sacrosanto come Rossini ci avrebbe sguazzato in lungo e in largo. Ma Verdi era perfetto per i foschi raggiri dei personaggi che ruotano attorno al furto di una preziosa bacchetta orchestrale tra mille storie della grande Storia che si intersecano trasfigurate in un romanzo ad effetto “ritardato” che rivive solenne spolverando antiche tradizioni come quella del “Cavallo di fuoco” che sferraglia sputando polvere pirica incandescente o le processioni votive di un popolo fiero che ha fatto della sacralità lo specchio magico del suo passato narrato con la saggezza popolana dei suoi antichi adagi. Musica e Letteratura che si baciano sulla bocca al chiar di luna tessendo una dolce serenata per una Silvia di memoria leopardiana dagli “occhi ridenti e fuggitivi”, che tesse cantando la sua tela, scrutata non dall'antico verone della casa paterna, ma dai lidi italici marchigiani di Grottammare e Ripatransone (che “sembra la schiena inarcata di un cavallo indomito, con la testa rivolta al mare, e le case, i campanili, le torri paiono stare aggrappate ai suoi fianchi, come i fuochi della “Domenica in Albis”), volti verso le lontane Americhe, sulle sponde del quieto Hudson dove nacque la Nuova York dalle ceneri dell'antica Nieuw Amsterdam, la metropoli “dai monti d'acciaio e cristallo, dal Woolworth dorato, la Chrysler d'argento e l' Empire e l'East River col suo malanconico muggito dei vaporetti”. La rivelazione è in fondo al bicchiere ormai vuoto: protagonista assoluta stavolta è una bacchetta magica e preziosa in ebano ed avorio, finemente intarsiata e con inserti in argento. Ma soprattutto con piccoli, ma evidenti segni di usura. Una bacchetta orchestrale nientemeno che del grande Toscanini, che l'ha donata nel 1935 al “principal concert master” di origini calabresi John Corigliano, il virtuoso primo violino della New York Philarmonic. Un dono inestimabile passato poi di rigore, come un testimone, da padre a figlio, al suo John, futuro compositore, che il 10 luglio del 2016 ha assistito all'antico Teatro Greco di Tindari all'esecuzione della sua “Sinfonia n.3 Circus Maximus” da parte dell'orchestra di Fiati del Conservatorio di Messina, diretta magistralmente dal nostro Lorenzo Della Fonte. Una interpretazione vibrante dell'opera di John Corigliano, Oscar nel 1999 per la colonna sonora del film di F. Girard “ Il violino rosso”, e Premio Pulitzer per la Musica nel 2001 per la sua “Sinfonia n. 2”, che due giorni dopo la superba esecuzione del direttore orchestrale valtellinese estrae dalla sua borsa “quella” bacchetta donandogliela con le parole “L'hai meritata!”. Le stesse in fondo proferite da Toscanini a suo padre. E a questo punto tutto va al suo posto. Quello giusto. E “Stoccafisso in salsa Verdi” si chiude finalmente sulle orme di un destino che si compie in punta a una bacchetta che nel tempo continua la sua opera.