“La scuola delle mogli” insegna

Atto secondo della Stagione Teatrale con un’opera di Moliére

(Nello Colombo)  Atto secondo della Stagione Teatrale di Sondrio con un’opera della piena maturità di Moliére, “La scuola delle mogli”, per la regia di Arturo Cirillo effervescente interprete di Arnolfo col suo alter ego Crisaldo  che tenta di riconciliarlo con la ragione  per sfuggire a “quel corredo che tocca a ogni marito”. Preservarsi dalle corna è duro mestiere, quindi lo svanito Arnolfo crede di mettersi al sicuro dal tradimento muliebre “crescendosi” una pupilla istruita al niente in un convento. Misoginismo acuto del commediografo francese che pesca nel torbido partendo dall’assunto che “una donna che pensa ha più del necessario”. Perfetto per l’imbroglio l’impianto scenico girevole sul palco del Teatro Sociale  con un soppalco  alla berlina in cui versa i suoi giorni migliori la docile e imbelle Agnese, una “spudorata ingenuotta” a corte di quel tanghero del suo tutore che s’è messo in testa di ammogliarsi. Con lei. Una educazione “imperfetta” per la svenevole ochetta giuliva solleticata dalle lusinghe dell’innamorato Orazio (quasi uno scugnizzo napoletano e nemmeno tanto guappo) che s’intrufola nella sua vita col suo mellifluo frasario d’effetto a cui la docile Agnese non si sottrae assolutamente, anzi rinfocola la sua passione tra mille bigliettini lanciati dall’alto del suo minuscolo verone in penombra.  Farisaicamente manicheo il senso turpe del peccato, tra languide carezze sulle spalle e timidi bacetti, “lavato” solo nel crisma del sacro matrimonio. Perfetta Valentina Picello coi suoi gridolini inebetiti, i suoi rossori impavidi, le sue  schiette e inappuntabili confessioni, gli stidii acuti figli dell’isterismo femminile gravato da astinenza, secondo una visione maschilista che Molière fustigava  con l’ipocrita morale dell’epoca. Una sempliciotta svenevole che scopre i suoi primi turbamenti  “adolescenziali”, dopo essere uscita per il rotto della cuffia dalle grinfie di una rigida e improvvida educazione monacale degli “occhi bassi, braccia conserte e ginocchia chiuse”. La natura, infine, ha il sopravvento sul raziocinio spietato messo in atto sull’angariato sesso debole che libera infine le gabbie pretestuose di un condizionamento mentale in una scuola in cui le mogli imparano presto o tardi ad annichilire le perversioni misantropiche di chi vorrebbe fare di loro un semplice trastullo da relegare tra cucina e camera da letto e poi risposta nell’angolo più oscuro della casa.  L’intrigo nel colpo di scena finale tra vezzi e doppiezze malfide di Georgette e Alain (Marta Pizzigallo e Rosario Giglio) “servitori di un solo padrone” – si fa per dire -   prende un’altra piega soppiantato da amare confessioni che inchiodano il più spregevole tra gli uomini che bramava portare a compimento il suo bieco contratto matrimoniale. Tempi remoti, questi. Ma quante volte ancora oggi in altri angoli sperduti del mondo il mercimonio del talamo nuziale ancora impera. Molière  si è scomodato a dare anima alle sue maschere della  Commedia dell’Arte che graffia e che castiga in una confessione senza soluzioni nè  assoluzioni.
           

Nello Colombo
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