Da Venezia: Un Leone d’oro inaspettato
Siamo abbastanza contenti che con Sacro Gra, il documentario di Gianfranco Rosi, Leone d'Oro alla 70.ma Mostra del cinema di Venezia, la più antica ed anche culturalmente la più valida, sia tornato a un film italiano dopo ben quindici anni. Ma la settantesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia passerà agli annali per l'alto numero di pellicole che hanno mostrato scene di violenza insostenibile, inguardabile e, in generale, hanno esibito una visione angosciante e desolata della vita. Nulla è stato risparmiato agli occhi e alle orecchie del povero spettatore: tutte le perversioni dell'animo umano sono state sviscerate con dovizia di particolari, per non parlare dei morti ammazzati. Si era come tramortiti da visioni così shoccanti e -quasi- inconcepibili da ritenere veritiere. Non siamo novellini, siamo ampiamente informati dalla TV e dai giornali di quanto sta succedendo nel mondo, però conosciamo anche gente che vive di gioia e speranza e come dice papa Francesco, non abbandona il desiderio di scoprire un mondo migliore per tutti.
I film formalmente impeccabili, hanno tenuto lo spettatore “sospeso” in uno stato di angoscia indescrivibile (es. Miss violence, premiato con il Leone d'Argento, storia di un uomo che prima violenta figlie e nipoti e poi le fa prostituire. Per tutto il film, sembra che il regista greco Alexandros Avranas dica allo spettatore: “Guardate come sono bravo a farvi soffrire”). Non si vuole certo negare che nel mondo non accadano le brutture raccontate nei film, né che questo compiacimento verso il male, oltre che in parte nella giuria, ha fatto breccia anche in molti critici tantomeno negare il valore di un cinema che le denunci. Ma i veri maestri del cinema innervano anche le loro opere più estreme, pensiamo ad Arancia meccanica o a Full metal jacket di Stanley Kubrick, di una forte tensione etica. In Miss Violence, in Gerontophilia, in The child of God, in Moebius e in altre pellicole passate in questa Mostra, invece, sembra ci sia solo il puro gusto di scioccare il pubblico. Ma la vita -secondo i registi a Venezia- è solo sporcizia o altro? Perché -allora- non parlare di Philomena, di Trachs, di Ana Arabia, diParkland…?
Allora, anche se il film di Gianfranco Rosi non avrebbe di certo meritato il Leone d’oro, dobbiamo constatare che -tutto sommato- Bertolucci nella sua alta carica di presidente ha fatto prevalere un verdetto che parla della vita comune di tanta gente. Di fatto, Gianfranco Rosi, alla premiazione ha dichiarato: "Non mi sarei mai aspettato di vincere un premio così importante con un documentario. Non pensavo nemmeno di riuscire ad arrivare a Venezia con un documentario, ma finalmente questo genere prova a confrontarsi con la finzione. Il documentario è cinema. Non dobbiamo avere paura di confrontarci con questa parola. Questo premio è anche dei personaggi del film che mi hanno permesso di entrare nelle loro vite. Qualcuno, in fase di montaggio, è caduto, ma tutti sono ugualmente importanti nell'economia del mio film. Bertolucci parla di film francescano, certamente abbiamo girato con spirito monastico e ci siamo avvicinati all'idea del film dopo tanto tempo. è stato un lungo percorso di avvicinamento al cuore della mia opera. Non è un caso che un maestro attento ai nuovi linguaggi come Bertolucci abbia premiato il nostro documentario. Ieri ho visto il film con i miei attori e loro si sono riconosciuti in quel pezzetto di verità che ho raccolto. In questo modo ho capito che il mio lavoro va nella direzione giusta".
Quali sono stati le ragioni del successo del Sacro Gra?
1) Roma vista attraverso il mondo degli umili e della periferia
Il Grande Raccordo Anulare, lungo circa 68 km, è un'autostrada urbana che circonda Roma come un anello di Saturno. Dalla fascinazione del paesaggista-urbanista Nicolò Bassetti, che l'ha percorso a piedi in venti giorni, perdendosi nella sua confusa e accesa realtà, è nata l'idea di un documentario, che ha richiesto tre anni di peregrinazioni, contatti, riprese. Rosi, stimato documentarista, è entrato nelle case delle persone di periferia, nella Roma ben lontana dalla basilica di San Pietro e da piazza di Spagna, dalle terrazze dalla vista spettacolare de La grande bellezza di Sorrentino. E anche qui ha trovato spaccati di vita interessanti, individui invisibili che meritano di essere visti. Un punto di vista originale, necessario.
2) Un messaggio di speranza contro la crisi
In un luogo privo di identità come può essere la realtà alienante di traffico e frastuono del Grande Raccordo Anulare, il GRA, Rosi ha scovato individui colorati, di forte personalità. "La grande crisi del nostro Paese non è tanto una crisi economica, che è un elemento ciclico della storia, ma è una crisi d'identità. Per questo per me è stato importante trovare personaggi di grande identità", ha detto il regista nei giorni scorsi. È dal mondo periferico, dai piccoli e dagli umili, che nascono la risposta alla crisi attuale e il seme della ripresa. "Quello della periferia diventa lo spazio di un futuro possibile". Sacro GRA, pur non rifuggendo la realtà, dà speranza. Anche il Direttore della Mostra 70, Alberto Barbera, ha più volte dichiarato che tra i tra i venti titoli in concorso alcuni erano proprio dimenticabili (da Night moves di Kelly Reichardt a La jalousie di Philippe Garrel) e solo una manciata sono stati i film riusciti (Miss Violence, Tom à la ferme, Philomena...). Ma -diciamolo- il più applaudito è stato Philomena di S. Frears che a Venezia porta sempre film indimenticabili.
3) Bertolucci, edizione numero 70, l'Italia su cui puntare
In un'annata senza grandissimi film, la presenza di un noto italiano come presidente della giuria, Bernardo Bertolucci, ha probabilmente inciso sulla scelta finale. E poi la Mostra ha toccato la prestigiosa cifra di 70 edizioni e aveva probabilmente bisogno di una sorta di autocelebrazione. Premiare un italiano, e per di più un doc, per la prima volta ammesso al concorso, ha un po' quel sapore di “nuovo”. E in un ennesimo anno in cui l'Italia sembra in un tunnel buio, la cui fine si stenta a vedere, in fondo non guasta - in assenza di opere eccelse - dare una spinta al cinema e alla creatività nostrani, da quindici anni rimasti lontana dai premi (è dal 1998 di Così ridevano di Gianni Amelio che un italiano non vinceva il Leone d'oro).
Allora???
L'Italia esce più che soddisfatta da questa 70ma Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia: Elena Cotta vince la Coppa Volpi per la sua interpretazione in Via Castellana Bandiera, opera prima della palermitana Emma Dante, mentre Gianfranco Rosi conquista con il suo documentario Sacro Gra il Leone d'Oro. Un'annata fortunatissima per la nostra bandiera: il Leone d'oro ritorna in casa Italia dopo 15 anni da Così ridevano di Gianni Amelio. E un'annata speciale per il documentario che per la prima volta in settanta anni conquista il podio a Venezia.
"Il film di Rosi è sorprendente, abbiamo deciso di consegnargli il Leone d'oro con molto entusiasmo, non ricordo se siamo arrivati alla prima votazione ad avere unanimità, ma mi sembra che nessuno abbia detto 'no voglio al posto di Sacro GRA quest'altro film''. Lo afferma il presidente della giuria del Festival di Venezia 2013 Bernardo Bertolucci, secondo il quale, "all'interno di questo anello che circonda la città di Roma, Rosi è riuscito con il suo talento di one man orchestra a farci affezionare e scoprire questi personaggi, e lo fa con grande stile. Il suo modo di avvicinarsi a questi personaggi ha qualcosa di puro, di francescano". Tutta la giuria "ha sentito la forza poetica del suo film". Amen!!!
Cosa racconta il film
Il Gran Raccordo Anulare romano è una tangenziale. Nella pratica, è un lungo anello di asfalto che, a malapena, segna il confine della grande metropoli, che marca il territorio di quella periferia estrema che contiene e che, al tempo stesso, lo scavalca.
Gianfranco Rosi ha preso la valenza stradale e simbolica di quella circolare lingua di strada e l’ha applicata a un racconto che tocca tangenzialmente - eppure attraversando e lasciandosi attraversare - la vita di un’umanità periferica e marginale, di confine. Prima ancora che antropologia dei non luoghi alla Marc Augé, o che etnografia metropolitana, quello di Sacro GRA è cinema capace di empatia e di emozione, di profondo rispetto per le persone e di grande umanesimo.
I personaggi letteralmente ed etimologicamente eccentrici che Rosi ha scovato e inseguito nel corso di due anni di lavoro rigorosamente “sul campo”, sono talmente carichi di vita e di specificità spiccata da correre teoricamente il rischio di diventare macchiette. È lo sguardo del regista, ad evitarlo: uno sguardo tanto partecipe da farne esplodere la vitalità da un lato e la decadenza dall’altro, e tanto discreto da conoscere il limite etico della sua intrusione.
Attraverso le immagini di un digitale spietato eppure mai gelido, Sacro GRA coglie le contraddizioni di un mondo che è quello dell’esistente e dell’esistenza, e spesso cattura verità piccole, semplici, banali e proprio per questo molto commoventi: una parola come un silenzio, un gesto come un’immobilità.
Lontano dai proclami quanto dai catastrofismi, Rosi non cede e invita a non cedere. Perché sono quelle vite di confine - in nome della dignità e dell’umiltà, e non a un appartenenza di classe - il vero baluardo al banchetto orgiastico di una dissoluzione che, come i parassiti delle palme che rivestono un ruolo fondamentale del film, minaccia di corrodere da dentro (e dal centro) il nostro mondo.