“Una donna (Angiola Tremonti) allo specchio”
Un libro (”Le stelle senza cielo”, edito dalla nota Casa Editrice dei fratelli Zecchini), presentato alla sala Besta della Banca Popolare di Sondrio da Giancarlo Ferrario e una donna (Angiola Tremonti) ad una svolta della propria esistenza. “L’Angiola venuta dal cielo a miracol mostrare” con suo graffiante e sublime linguaggio infocato d’amore e intessuto di un dolore lacerante che scava nell’intimo, quasi terra, quasi cielo, ha mostrato le stelle riflesse in un pozzo profondo di amarezza e solitudine, d’inganni e disinganni. E di mute speranze. Nel suo preludio senza ludus, un lamento d’amore senza più amore, circonciso da rabbia e virile afflizione, senza mai piangersi addosso, Tremonti affronta la praefatio di una celebrazione di cinque vite, comunque sue, quadri di un’umanità dolente che si è nutrita a fondo del seme della sofferenza e dell’abbandono. Dilaniante dilemma per Monica al bivio: la rabbia quieta di un letto ormai sfatto, in disarmo, come uno sterile seno svuotato d’ogni energia nella risacca dell’ultimo autunno, o l’inquieta certezza di un figlio che alberga nel grembo. Poi Annalisa alle soglie del cielo, ammalata per sempre d’amore per l’Africa nera. Assuefatti all’opulenza selvaggia di un mondo che tutto consuma nel nome di un delirio d’onnipotenza onnivora che ignora i bisogni più sacri di chi al nostro fianco, senza più dignità né rispetto, versa i giorni più cupi smaniando un sol giorno di sole, abbiamo dimenticato l’orrore dell’abbandono dei nostri fratelli, abbiamo scordato da tempo come sfuggire al velo impietoso dell’indifferenza biliosa di una colpevole accidia che oscura la mente serrando le porte del cuore. Sfuggendo a una fede che è agire secondo coscienza. O ancora Michela, da rampante ammiraglia della carta stampata, a umile reietta tra le reiette di un carcere duro, per accogliere i cocci di esistenze malate e confuse dallo stupro dell’anima covato nel covile paterno. E Milena abbacinata da un amore materno di donna fra donne, con Anna a cui il destino ha riservato un’ultima chance nella disarmonia distonica di tutti i suoi affetti più cari. Poi Angiola si confessa affacciandosi al balcone dei ricordi della prima infanzia in oratorio tra le suore di Santa Croce dove si è sbucciata tante volte le ginocchia, braccata inesorabilmente da un Dio onnipresente fino all’intimità d’una stanza da bagno. E infine, su testi della stessa Tremonti, letti con voce calda e suadente da Daniele Monachella, l’arte e la grazia di Adriana Zecchini, duttile, seducente voce, su un’ardita architettura sinfonica di Andrea Ferrante, dosata dal sapido uso degli archi nell’orgasmo di timpani ovattati, serpeggianti, che esplodono all’improvviso come fuochi d’artificio in un cielo stellato d’agosto.