il sogno dell’Africa nera si chiama “Muhammad Ali’”
A doppio passo “A Night Kinshasa” di Federico Buffa, grande interprete delle telecronache sportive, che è salito sul ring del Teatro Sociale a raccontare il match di boxe del secolo tra i pesi massimi George Foreman e Muhammad Ali, in uno Zaire prostrato dalla dittatura di Mobutu, funesta quanto la furia proditoria monsonica. Nel cuore della giungla africana con una posta in palio di 10 milioni di dollari, lo spietato dittatore aveva inscenato uno spettacolo epocale per dis-trarre l’opinione mondiale dalle sue carneficine sottovuoto. Ad entrare nel torbido marasma dello stadio-prigione di Kinshasa pullulante di sciami impazziti che gridano selvaggiamente “Alì boma yè” quell’epica notte del 1974, il sinfonico tempestare dei timpani di Sebastiano Nidi, dispensatore inebriante di ritmi percussivi ossessivi, tribali, cinematografici, quasi un ruggito della giungla tra tam tam ancestrali e gong totemici che fanno da contraltare ad una luna craterica, ruvida, eppure immensamente sontuosa. Dall’altra un compositore di altissimo profilo come Alessandro Nidi che tesse al pianoforte melodie sorprendenti condite di sale e pepe al punto giusto per scatenare l’inferno torbido di una libertà eclissata tra catene che mordono la dura lama delle nude corde del pianoforte, mentre gli zildjian stridono piangendo sfregati dall’archetto. Due musicisti d’eccezione che hanno vivificato una narrazione dura, spigolosa della vita del grande Cassius Clay, ma a tratti monocroma nonostante l’ambientazione rosso sangue e blu cobalto che dipingeva tra alti bidoni in malarnese picchiati selvaggiamente nell’apoteosi di uno stadio che osannava il suo Messia africano che aveva steso al tappeto Foreman “che si era venduto al bianchi”. La storia del colonizzato Congo belga sullo sfondo di un popolo angariato da una tirannide che ammannisce a piene mani “panem et circenses” in una telecronaca al cardiopalma che vede infine Muhammad Alì, simbolo dei diritti umani, prima inchiodato dalle accuse di renitenza alla leva per il gran rifiuto di una guerra vietnamita senza speranze, e infine osannato dalla stessa pletora dell’onnipotenza politica statunitense che ne aveva fatto, paradossalmente, il suo vessillo proprio nel momento della sua più cupa fragilità del Parkinson. Attenta e puntigliosa la regia di Maria Elisabetta Marelli in una narrazione fuori dalle corde. Le stesse funi del quadrato dove si misurano i moderni gladiatori sembrano infine distendersi come un vuoto tetragramma su cui s’inerpicano striduli neumi di lamenti laceranti e di folle oceaniche ammansite dal Potere. Sul piatto miliardario di un incontro di boxe a Kinshasa c’era molto di più: c’era il riscatto dell’Africa nera che rivendicava il suo pieno diritto alla libertà, ma anche il desiderio dei neri d’America di scrollarsi finalmente di dosso secoli d’intollerabile schiavitù.