La Fanciulla senza tempo
Musica e poesia negli affreschi della nota pittrice lecchese Rosalba Citera, in mostra a Palazzo Pretorio fino al prossimo 13 ottobre.a
(Nello Colombo) Oltre l’iridescenza caleidoscopica di uno specchio franto in una miriade di pezzi, oltre l’opalescenza velata delle ombre remote della notte, oltre il baluginio fumigante delle nebbie del primo mattino: il sole.
Il sole che indora i battenti chiodati del portone di rovere inveterato di un antico maniero che si apre inondando di luce la sala del trono, tra angelici putti osannanti e musici assisi sugli scranni più alti tra vielle e ribeche, zufoli, cetre e ciaramelle. Al lieto convito amabili donzelle e garbati cavalieri che danzano nell’aria di festa. E il tempo pare essersi fermato mentre il contado segue il lento volgere delle stagioni nel “primo vere” dell’armoniosa rinascita della natura, nello splendore luteo dei campi maturi appena falciati, nel momento sì caro all’”ebbro” Dioniso della vendemmia, e infine in quello della terra addormentata nella “iverna quiete”.
Una mitica Arcadia in un affresco irradiato di luce e colore, quello di Rosalba Citera, eterea fanciulla di terra e di cielo che sa coniugare perfettamente l’ocra selvaggia ed il verde marino, il senape gaio ed il rosso carminio nella gioiosa iconografia quasi ialina di un Rinascimento pittorico d’antica e nobile fattura. La si vede all’opera: le mani febbrili che seguono l’ansare palpitante del cuore guidato dal magnetismo sincretico degli occhi mentre sull’intonaco “a fresco” steso sul crudo “arricciato” imprime con lo spolvero la prima “sinopia” dando infine slancio a sapide pennellate di colore.
E il suo affresco è per sempre, prigione nel suo letto immacolato, fresco di calce e di sabbia, mentre lei ridiventa bambina irretita dalla fascinazione proibita di una prensione persecutrice a cui non resiste, lasciando sul bianco la sua rapida, indelebile impronta tra Papi e Santi, Cherubini e Madonne, come quella “Degli Angeli”. Soavemente materna e sovrana, la Vergine che stringe dolcemente il suo bambino cullato dalle celesti armonie degli angeli nel lieto concerto della plenitudine fastosa del creato.
Sacro e profano con la “Dea della Fortuna” procace e suadente con la sua cornucopia ricolma di grappoli aulenti, o ancora la donna terrena, sensualmente innocente, l’Eva di un Eden primigenio, tesa nella sua profferta d’amore a un Adamo ormai vinto che la cinge mollemente alla vita. Paesaggi incantati la Brianza, la Valtellina, il Lecchese, il Comasco, quadri idilliaci di un libro fiabesco che narra miti di un mondo trasfigurato; le mille leggende della Grigna, del cavaliere e il cinghiale, di San Rocco e di Giobbe; la gloriosa epopea della grande lirica nei quadri “sinfonici” di Rossini e Donizetti, di Verdi e Puccini; i memorabili affreschi manzoniani degni d’illustrare nuove edizioni patinate dei quel “Fermo e Lucia” scolpito nel segno dell’immortalità; e quel mirabile ciclo delle tradizioni tra mietitura e spigolatura, vendemmia e pigiatura, tosatura degli armenti e cardatura della lana, preparazione del burro nella “penagia” e l’eroica bachicultura d’altri tempi.
Nobile arte l’affresco amabilmente proposto da Citera a studenti affascinati dal suo sorprendente racconto visivo che porta indietro nel tempo e conquista con immutato stupore.
E, se è vero che ogni artista dipinge cantando la propria anima, allora Citera lo ha fatto con la poesia del suo tocco fatato, depositaria di un dono prezioso che solo un dio dell’Olimpo concede.