“IO MI CHIAMO FRANCO” di Nello Colombo
Singolare la storia di Franco Broggini, veterano dell’ultima guerra, prigioniero in terra d’Africa e della “Perfida Albione”. La memoria eidetica si ridesta imperiosa riesumando antiche carte e foto sbiadite dal tempo. Ma il riaffiorare di un volto in cui perdersi e ritrovarsi riconoscendosi nello speculum paterno è riappropriarsi di un tempo che fu e rinasce tra poche righe snudate su un foglio incartapecorito. Anche per chi è sempre stato avaro di cupe reminiscenze belliche che lacerano il cuore, può giungere il giorno della rinascita in una sorta di ologrammatica visione che riesuma la memoria di una prigionia mentale prima che fisica nelle sperdute lande di un mondo sconvolto dall’ultimo conflitto mondiale. Sarebbe forse giusto compito dei figli perpetuare un ricordo paterno ricucendo storie di una grande Storia intinta nel sangue di inconsapevoli eroi talvolta sconosciuti. Geniale per Nene Broggini, eclettico artista a 360°, e fratelli Giancarlo e Luciano addossarsi quel confidenziale “Io” narrante di papà Franco che fa palpitare ancora una voce che brucia ogni scansione temporale per essere lì, sul ciglio di una dimensione “vera” in una infelice anabasi di un dopoguerra che rigetta i propri reduci, reietti da una società smantellata che tenta di rimettere faticosamente in piedi i cocci di una devastazione infinita sedimentata nei lutti dolenti di una povera gioventù mandata allo sbaraglio. E Franco Broggini prigioniero coatto in terra d’Africa e poi in Gran Bretagna se ne torna in patria - ormai una larva umana – col “patentino” di infermiere provetto e perfetto anglofono, rinserrando patimenti ed angosce nel cotonificio Fossati sondriese per seppellire per sempre i suoi ricordi. E se questi eroi la Storia sembra averli dimenticati, tocca alla nuova progenie rendere loro onore e rispetto. E’ questo il senso del libro “Io mi chiamo Franco” da cui riemergono zampillando i ricordi. Dalla “fabbrica del Duomo” milanese al salto nel buio graziato dalla Vergine Celeste di Tirano dopo un incidente. Da fervente sostenitore della libertà in un mondo asservito al volere incontrastato del Duce, a scampoli sereni presso il glorioso cinema “Odeon” ora ridotto ad uno scarno deposito senza vita, meritandosi il nomignolo di “Gazzosa”. Come un fulmine a ciel sereno la folgorazione del fermento circense, accecato infine dalle rutilanti luci di un Luna Park per viaggiare per gli ameni lidi della Bella Italia. Inesorabile giunge poi la mazzata della naja nel ‘39, con le pezze ai piedi, e la subordinazione assoluta ad un disegno dispotico e infame che nel giugno 1940 in un’adunata oceanica fascista getta l’Italia nell’inferno spedendolo infine a combattere sul fronte francese dopo aver approntato un rapido corso per infermiere, per essere poi spedito in Libia a combattere tra il fischiare delle pallottole e quello del Ghibli la “Battaglia di Bardia”. Sangue e morte ovunque. Venne poi la cattura e il confinamento in Sudafrica a prestare un servizio massacrante nella chirurgia di un ospedale da campo. Unica luce l’incontro col concittadino sondriese Gino Marsetti addetto alle cucine. Fame e stenti e improvvisi bombardamenti a tappeto. “Avevo visto tanti corpi feriti, squartati, smembrati, morti, che ormai restava solo la morte in cuore e nell’anima per questi poveri giovani che, come me, erano stati mandati al macello. Ma questa è la guerra”: è il triste ricordo di Broggini. Una lunga prigionia costellata da qualche partitella di calcio e l’amarezza costante della lontananza dai propri cari e dalla così lontana terra valtellinese. Poi l’annuncio del trasferimento nel marzo del ’42 in Inghilterra dopo un lungo e rocambolesco viaggio nelle infide acque del mare. Lì oltre al lavoro medico c’era anche quello nelle “farm”, le fattorie contadine dove conosce la giovane Mary con cui allaccia un’amicizia “fraterna”. Giunse poi l’armistizio del ‘43 che fece dei nemici i propri alleati trasformando il rapporto di Broggini in semplice “cooperazione”. La liberazione giunse però solo nel 1946. “Arrivato a Milano, presi il treno per Sondrio e quando mi sedetti su quei sedili di legno, sentii sbuffare la locomotiva e il treno si muoveva, piansi! Tornavo a casa!”. Eppure triste il destino di un reduce per certi versi “indesiderato”, dopo 7 lunghi anni, che preferisce sistemarsi al Cotonificio Fossati dove incontra la luce dei suoi occhi: la dolce Clara che sposa nel ’48. Sereno l’epilogo. “La nostra gioventù sparì in un attimo e dovemmo diventare uomini all’improvviso. Quello che i nostri occhi e la nostra anima hanno dovuto vedere e sopportare, resta dentro di noi. Quei pochi racconti che ho fatto ai miei figli spero che un giorno possano essere raccontati ai loro figli, scritti su un foglio”. Poi il mesto saluto: “Ora scusate, ma oggi 19 novembre del 1985 devo andarmene, anch’io termino questa mia avventura terrena. Mio figlio è qui e mi guarda negli occhi. “Mi raccomando, dì ai tuoi fratelli, a tua sorella e alla mia Clara che vi ho amato, tanto”. Dolcissima la risposta: “Certamente, papà, certamente! Sei stato e sarai sempre un grande per noi!”
Nello Colombo