Le forze oscure della globalizzazione

di Maria de falco Marotta

Si pensava che la globalizzazione avesse spalancato le porte a un mondo più giusto e pacifico, ma sembra piuttosto il contrario Sia in Italia che nel resto del mondo la “libertà” di comunicare, di spendere i soldi come si vuole, incontrare tanta gente, sembrano aver liberato forze oscure che in Yemen, Iugoslavia, in Iraq, nelle repubbliche dell’Asia centrale, in India, in Africa, in Brasile, in America hanno portato gli uomini a parossismi di violenza quasi inimmaginabili. Perché questa spirale invece di attenuarsi si è intensificata, fino a portarci a vivere come disperati, senza sapere più dove siamo e cosa ci sta succedendo.
Nel saggio  Arjun Appaduraj, antropologo della globalizzazione, s’interroga sul perché dell’aumento della violenza nel nostro tempo proponendo teorie interessanti.Sicuri da morire, violenza nell’epoca della globalizzazione (Meltemi Editore, 2017) Nel saggio emerge infatti il contrasto tra le aspettative di una società pacifica sull’onda della vena “New Age” della fine degli anni Novanta e le forti delusioni portate invece dal nuovo Millennio.
Dopo l’11 Settembre 2001 infatti, il quotidiano è stato caratterizzato da un “surplus di rabbia”, ovvero un eccesso d’odio, come lo ha definito Appaduraj, declinato sia contro i corpi fisici che contro i corpi spirituali di coloro che sono presi come vittime; sia nella sfera privata tra persone conosciute, amici, ex compagni e conviventi, familiari di ogni grado, sia nella sfera pubblica articolata in diversi paesi, regioni, clan, gruppi sociali, organizzazioni statali, parastatali, locali ed internazionali. La violenza negli ultimi vent’anni non si è però limitata a quei modi occulti che un tempo connotavano i periodi di guerra ma si è estesa ed aperta a situazioni quotidiane e correnti. Appaduraj ipotizza così il perché:
“Tenendo in considerazione i molti elementi che potrebbero far parte di una risposta plausibile, ipotizzo che questo eccesso di rabbia abbia in qualche misura a che fare con il modo in cui la globalizzazione ha deformato “il narcisismo delle piccole differenze”.
A giorno d’oggi “le piccole differenze possono diventare del tutto inaccettabili. La brutalità, la degradazione ed il livello di disumanizzazione che spesso accompagnano la violenza etnicizzata degli ultimi quindici anni sono un segnale del grado di incertezza” a cui è arrivata la nostra società. L’incertezza, l’incompletezza percepite dalle persone, un problema largamente esaminato anche da Zygmunt Bauman nel saggio La Società dell’Incertezza, si sono fatte dunque sentire in un’espressione maggiore di intolleranza e violenza nella società. Le differenze sono così confluite verso un impoverimento della società piuttosto che verso un arricchimento della stessa. L’insofferenza e l’intolleranza delle piccole cose hanno preso il sopravvento. Però non è detto che questa tendenza non si possa invertire. E’ ciò che speriamo tutti/e.
Per esempio, è diventato un tormento l’identità, e particolarmente l’identità etnica, sia come un concetto complesso definito come “la rappresentazione di un insieme di valori, simboli e modelli culturali che i membri di un gruppo etnico riconoscono come loro distintivi”. Quest’identità etnica non riflette però una realtà statica, data una volta per tutte, ma è una costruzione che si invoca come distintiva a seconda delle circostanze, dei tempi e delle situazioni (Fabietti, 1995). L’identità etnica è qualcosa di socialmente costruito dai vari gruppi sociali in relazione agli altri gruppi di una stessa comunità. Gli eventi esterni possono determinare il suo impiego perciò l’uso di una certa “identità etnica” può essere fluido e flessibile ed adattarsi in maniera strategica anche politica, alla collettività di cui è parte.
L’identità etnica è quindi una rappresentazione che si costruisce sulla differenza, su tratti distintivi utilizzati per contraddistinguersi ed in genere “si tratta di definizioni mediante cui un determinato gruppo si auto-attribuisce una omogeneità interna e – contemporaneamente – una diversità rispetto ad altri”. La definizione di identità etnica elaborata criticamente dagli antropologi, che fanno notare come il suo uso sia circostanziato, è frutto di un’intensa frequentazione degli “altri”, ed è stata elaborata verificando sul campo come i diversi gruppi locali si definiscono e come si relazionano nei contesti più ampi di cui sono parte.
Oggi più che mai gli strumenti concettuali dell’antropologia culturale ci possono aiutare a comprendere la realtà contemporanea: usare criticamente queste conoscenze può contribuire ad analizzare eventi gravi che vedono coinvolte diverse popolazioni in diversi punti della terra.
Non bisogna però lasciare che certi discorsi neo-razzisti si impossessino di categorie, come identità, etnia, cultura, tribù proprie del linguaggio di frontiera dell’antropologia culturale per legittimare discorsi di esclusione o di razzismi de-biologizzanti.
Ma piuttosto utilizzarle per elaborare nuovi orizzonti di significato (Testo citato di Ugo Fabietti, L’Identità Etnica, Storia e Critica di un Concetto Equivoco, Carocci editore, 1995). 

Maria de falco Marotta
Cultura e spettacoli