Teatro. “ARS GRATIA ARTIS”

(di Nello Colombo)  Il sorriso è il condimento della vita. Una sana risata è l’elisir di lunga vita. “Arlecchino muto per lo spavento“ al Teatro Sociale ha dato la stura ad esilaranti momenti che hanno coinvolto pienamente la sala  abbordata dall’estro istrionico di una Compagnia garibaldina che sa il fatto suo: sa recitare, sa suonare, sa cantare, e fare molto di più entrando in perfetta sintonia col pubblico sbrodolando una trama semplice semplice in cui ogni tassello va infine al posto giusto. “StivalaccioTeatro” in coproduzione col Teatro Stabile di Bolzano, il Teatro Stabile del Veneto e il Teatro Stabile di Verona,  ha dato vita ad una effervescenza scenica che ha navigato a vista tra stereotipi dell’immaginario collettivo sulla demarcazione territoriale dialettale (il romanesco, il napoletano, il bergamasco e, naturalmente, il veneto “imbriacato” di Amarone)  calcando la mano su una caratterizzazione esasperata, ma vincente di ogni personaggio (straordinari Sara Allevi, Marie Coutance, Matteo Cremon, Anna De Franceschi,  Pierdomenico Simone, Michele Mori, Stefano Rota, Maria Luisa Zaltron e Marco Zoppello magnifico regista in capo) che ci hanno marciato alla grande sul canovaccio “Arlequin muet par crainte” di Luigi Riccoboni. Ben congegnata ed efficace la scenografia di Alberto Nonnato rivestita di luci policrome e arricchita da maschere sapienti di Stefano Perocco di Meduna e dai costumi ricercati di Licia Lucchese.  In un vero Teatro nel Teatro della Commedia dell’Arte, gli attori hanno raccontato con brio ed esaltazione umoristica le vicende dell’aitante Lelio che nell’incanto di un plenilunio vestito da una dolce serenata corteggia la bella Flamminia figlia di Pantalone De’ Bisognosi donandole il suo cuore tra mille fiori, ricambiato fino allo spasimo. Ma la dolce fanciulla è stata promessa in sposa con un contratto matrimoniale con l’imberbe Mario, giovane milanese succube della madre Stramonia Lanternani, ricca merciaia che lo sovrasta con la sua possanza volitiva. Ed è qui che entra in scena il vulcanico e pur sprovveduto Arlecchino dalla lingua lunga che rischia di perderla per sempre svelando le intenzioni segrete del suo padrone costretto a cambiar nome in Florindo e avventurarsi nella metropoli lombarda per fare un macello col suo rivale in amore. Ma il timido Mario è segretamente innamorato della bella Silvia a cui dovrà amaramente rinunciare.  L’intrico narrativo si complica con una serie di equivoci che si dipanano solo nel finale quando la simpatica servetta Violetta che fa il filo e il controfilo ad Arlecchino si beerà tra le sue braccia. Irresistibile l’ingresso in sala di una scombinata masnada di sgherri che seminano scompiglio tra le file del teatro sulla marcia dei bersaglieri ingaggiando lotta con uomini armati di con scolapasta e padelle, fino al gaudioso ricomponimento del puzzle matrimoniale: Lelio con la sua Framminia, Mario con l’avvenente Silvia e Arlecchino con la spregiudicata Violetta in un arrembaggio scenico da climax surriscaldato da un “finale andaluso” rinfocolato dalla celeberrima “Alla fiera di Mastro Andrè”. E così finalmente Arlecchino che si era chiuso in un religioso silenzio, diventando muto… per spavento, (o forse solo per essere a digiuno di lingua francese!) potrà chiudere in bellezza e ricchezza la sua nuova vita. L’ Arte del Teatro e il Teatro dell’Arte trovano dunque perfetta consonanza con l’intera compagnia in proscenio ad accogliere l’ovazione del pubblico invitato a gridare con loro: “Viva il Teatro! Viva la Commedia!”.
Nello Colombo

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