In scena Ale e Fraz al Teatro Sociale

(Nello Colombo)   La tragicommedia della vita sul palcoscenico del Teatro Sociale con “Romeo & Giulietta. Nati sotto contraria stella” con Ale e Franz & Company  (Eugenio Allegri, Marco Gobetti, Marco Zannoni e Roberto Zanisi, con la regia di Leo Muscato) per una sorta di teatro nel teatro con una “sgarrupata” compagnia di girovaghi che allestiscono come possono, alla buona, in quattro e quattr’otto, un teatrino itinerante tendendo le sartie di una vela sbrindellata a mo’ di sipario tra bidoni sgangherati e un’improbabile segnaletica stradale pencolante. Saranno loro a mettere in scena – nel vero senso della parola – il dramma shakespeariano per eccellenza che calca la sanguinosa guerra fratricida delle famiglie veronesi dei Montecchi e dei Capuleti che coltivano rabbia e livore in una faida inarrestabile. L’azione è diretta da un vecchio e malandato capocomico che tenta di seguire il filo di un copione sgualcito e consunto reggendo il moccolo ai suoi commedianti, saltimbanchi della parola, che se la tirano a volte improvvisando su un canovaccio ormai rodato, ricucito alla grande da un ispirato Dario Buccino, musico fin dentro all’anima che con la sua duttile chitarra e il suo banjo travestito da mandolino ha dettato ritmi e climax della narrazione scenica. A chi si aspettava, però, il massacro dissacrante del capolavoro di Shakespeare, annunciato per altro in proemio, non è rimasto che rivivere in transfert il dramma puro di un amore sconfinato che condurrà a medesima morte gli amanti fedeli. Una dura lezione che invita a guardare oltre le mere apparenze. Oltre il vestito dell’imperatore. Ale col suo imbarazzante candido tutù si è calato nei panni di una Giulietta “sgraziata” che pur parlava il linguaggio dell’amore in modo così suadente da rendere evanescente la sua immagine allucinata, mentre il buon Franz, il suo dolce Romeo innamorato dell’amore, è pronto a rinunciare finanche al suo stesso nome per la luce dei suoi occhi svestendo la fuggevole, ingannevole veste delle parole, vacuo involucro che dà sembiante a un volto, ad un corpo. Una comicità tutta drammaturgica che scarnifica il sacro valore del “verbo” come quella di un misero pagliaccio che piange tutte le sue lacrime solo nel buio della sua stanza quando è solo.  Basta poco allora a dipingere il pallore lunare che vela l’antico verone a cui Giulietta si affaccia con tutto lo stupore di una adolescente in boccio. Il divino contatto michelangiolesco della “Sistina” evocato dai due giovani amanti ha il sapore dell’accensione a Menlo Park in quel freddo 31 dicembre del 1879 dell’illuminazione ad incandescenza di Edison, straccato però dal forsennato raglio di un urlatore incartapecorito megafonato che sbrodola il tema de “Il tempo delle mele”. Opera rigorosamente al maschile, come un tempo, ma con spazi e tempi ristretti, in cui il destino beffardo sa come cogliere il palpito dei cuori innamorati, nati, purtroppo, sono contraria stella.
 

Nello Colombo
Cultura e spettacoli