Che cos’è la Libertà?
Credere, immaginare,
presupporre o ritenere di essere liberi all’interno di un
recinto, di uno steccato o di una gabbia, è libertà?
Disporre di specifiche agevolazioni, facilitazioni,
concessioni, oppure di particolari prerogative, vantaggi o
privilegi, nel contesto di una medesima prigione, è libertà?
Mettersi al servizio di un qualunque oppressore, oppure
aiutare o sostenere i suoi sbirri a meglio sottomettere,
angariare, tiranneggiare e vessare i nostri genitori, i
nostri figli, i nostri fratelli e le nostre sorelle, è
libertà?
Difficile, in prima battuta, focalizzare e circoscrivere
cosa sia o dovrebbe effettivamente essere la libertà. Ma una
cosa è certa: i casi che ho rapidamente cercato di enunciare
e di descrivere non mi sembrano, ad occhio e croce,
corrispondere ad una sua qualsiasi oggettiva o
incontestabile definizione.
Che cos’è o dovrebbe essere, allora, la libertà?
E’ o dovrebbe essere, «fare», «dire», «pensare» quello che
voglio o desidero ed, allo stesso tempo, «essere»,
«esistere» ed «agire» come meglio credo o l’intendo? Oppure,
è o dovrebbe essere, accettare una qualunque limitazione,
sia del mio «essere», «esistere» ed «agire» che del mio
«fare», «dire», «pensare», nel rispetto delle leggi che
altri - al di fuori di me; oppure, in combutta o complicità
con la mia persona; o ancora, grazie alla mia neutralità, al
mio disinteresse, alla mia indifferenza, alla mia noncuranza
o al mio menefreghismo - hanno redatto, promulgato ed
imposto»?
«Essere», «esistere» ed «agire» come meglio credo o
l’intendo, nonché «fare», «dire», «pensare» ciò che voglio,
in assenza di qualsiasi tipo di limitazione, coercizione o
costrizione, sembra essere - a prima vista - la migliore
definizione della libertà.
Cosa di meglio, infatti, nel contesto della nostra
particolare esistenza, che poter apertamente e
spontaneamente «essere», «esistere» ed «agire» come meglio
crediamo o l’intendiamo e, quindi, «fare», «dire», «pensare»
ciò che vogliamo o desideriamo, non ponendoci mai nessun
limite e contenendoci esclusivamente a seguire le
disposizioni o le aspirazioni, i desideri o gli appetiti, le
passioni o le concupiscenze, le fantasie o i capricci del
nostro istinto, della nostra volontà e/o della nostra
ragione?
D’accordo - potrebbe obiettare qualcuno tra i miei possibili
o probabili contraddittori - ma, come armonizzare o
conciliare il nostro «essere», «esistere», «agire», come
pure il nostro «fare», «dire», «pensare», con quello degli
altri nostri simili che vivono, coesistono ed operano, come
noi, all’interno della medesima società?
Se ognuno di noi vivesse ed operasse, da solo, nel bel mezzo
di un qualunque deserto inabitato ed, allo stesso tempo, non
avesse bisogno di nessuno per contentare, soddisfare o
appagare le disposizioni, le aspirazioni, i desideri, gli
appetiti, le passioni, le concupiscenze, le fantasie o i
capricci del suo istinto, della sua volontà e/o della sua
ragione, il problema non si porrebbe affatto.
In quel caso, infatti, ognuno di noi potrebbe benissimo
«essere», «esistere» ed «agire» come meglio crede o
l’intende e, simultaneamente, «fare», «dire», «pensare» ciò
che meglio vuole o desidera, senza per altro incorrere nel
rischio di dovere in qualche modo importunare, infastidire o
disturbare qualcuno.
Lo stesso dicasi, se gli uomini fossero tutti uguali.
Anche in quel caso, infatti – visto che il nostro
particolare «essere», «esistere», «agire» «fare», «dire»,
«pensare» corrisponderebbe perfettamente a quello degli
altri all’incirca 6/7 miliardi di esseri umani che, come
noi, in questo momento, vivono, coesistono ed operano nel
contesto del medesimo Pianeta - non potremmo mai rischiare
di dovere minimamente importunare, infastidire o disturbare
qualcuno.
Siccome, però, nessuno di noi vive ed opera realmente - da
solo - nel bel mezzo di un deserto inabitato, né tanto meno
è in grado - senza la presenza concreta o astratta, o il
concorso diretto o indiretto, degli «altri» - di contentare,
soddisfare o appagare interamente o parzialmente le
disposizioni. le aspirazioni, i desideri, gli appetiti, le
passioni, le concupiscenze, le fantasie o i capricci del suo
istinto, della sua volontà e/o della sua ragione, diventa
lapalissiano ammettere che il mio ««essere», «esistere» ed
«agire», come il mio «fare», «dire» e «pensare», dovrebbero
- per potere essere liberamente vissuti e/o sicuramente
esercitati - tenere conto dell’ «essere», dell’ «esistere» e
dell’ «agire», nonché del «fare», del «dire» e del «pensare»
di tutti coloro che vivono, coesistono ed operano, nello
stesso momento storico, all’interno del mio medesimo
contesto.
A questo punto, tuttavia, il problema si complica.
E’ vera libertà, infatti, accettare una qualsiasi
limitazione, volontaria o imposta, sia del nostro «essere»,
«esistere» ed «agire» che del nostro «fare», «dire»,
«pensare», per permettere ai nostri simili di vivere e/o di
esercitare il loro particolare «essere», «esistere» ed
«agire» o il loro specifico «fare», «dire» e/o «pensare»?
Diciamo che non è - né può essere - vera libertà: né per
noi, né per gli «altri»!
Allora, che cos’è o dovrebbe essere la libertà?
A mio modesto parere, potrebbe essere, ad esempio: imparare
innanzitutto a distinguere, in ognuno di noi, l’ambito della
nostra «vita privata» (quella, cioè, che abbiamo il
sacrosanto diritto/dovere di vivere, di esercitare e/o di
godere - rientrando a casa - dopo avere sorpassato la soglia
d’ingresso della nostra dimora) e quello della nostra «vita
pubblica» (quella, cioè, che - uscendo di casa -
incominciamo a vivere, esercitare e/o godere,
individualmente e collettivamente con gli «altri», sulla
pubblica via).
Nell’ambito della nostra «vita privata», ognuno di noi
dovrebbe assolutamente avere il diritto/dovere (ed
ugualmente, i mezzi e la possibilità pratica) di potere
«essere», «esistere» ed «agire» come meglio crede o
l’intende, nonché «fare», «dire», «pensare» ciò che vuole o
desidera.
Nell’ambito della nostra «vita pubblica», invece, ognuno di
noi dovrebbe quantomeno cercare di tenere conto dell’
«essere» dell’ «esistere», dell’ «agire», del «fare», del
«dire» e del «pensare» degli altri…
Parafrasando Voltaire, verrebbe addirittura spontaneo
affermare che ognuno di noi dovrebbe, per esempio,
incominciare ad apprendere che il suo «essere», il suo
«esistere» ed il suo «agire», nonché il suo «fare», il suo
«dire» ed il suo «pensare», finiscono là dove iniziano
«l’essere», «l’esistere», «l’agire», il «fare», il «dire» ed
il «pensare», degli altri.
Quel tipo di soluzione, però - per ammissibile,
comprensibile e giustificabile che possa teoricamente
apparire - è praticamente inapplicabile, ineseguibile ed
irrealizzabile.
E’ inapplicabile, ineseguibile ed irrealizzabile, poiché,
neutralizzandosi a vicenda, i nostri rispettivi «essere»,
«esistere», «agire», «fare», «dire», pensare» - oltre ad
auto-configurarsi fissamente e staticamente come degli
«atomi» isolati ed autonomi, disgiunti e dissociati -
contribuirebbero inevitabilmente ad inibire, ostacolare o
interrompere qualsiasi possibile dinamica politica,
economica, sociale e culturale all’interno della società a
cui apparteniamo e/o di cui siamo parte integrante. E quella
situazione di volontario, riguardoso e reciproco «stallo»,
concorrerebbe fortemente, a sua volta, sia ad immobilizzare
o ad impedire il normale corso della Storia dei diversi
popoli-nazione della Terra che a fare inaridire,
cristallizzare o regredire qualunque genere d’evoluzione
naturale della Civiltà umana.
Allora, come fare per permettere a ciascuno di noi di potere
pacificamente coesistere con coloro che vivono ed operano
all’interno del nostro medesimo contesto, senza per altro
dovere, in qualche modo, essere assurdamente ed
ingiustamente obbligati a subire la «morale» e la «legge»
dei nostri simili, oppure a soggettivamente ed
arbitrariamente negare, menomare e/o reprimere «l’essere»,
«l’esistere», «l’agire», il «fare», il «dire» ed il
«pensare» di questi ultimi?
E’ semplice.
A mio modesto giudizio: decidendo - di comune accordo - di
fondare le nostre eventuali e possibili società del futuro,
intorno a due urgenti ed indispensabili «pilastri»: quello
della «morale pubblica» e quello della «legge collettiva».
Non certo, dunque, la «mia morale» e la «mia legge»,
esclusivamente; né tanto meno la «tua morale» e la «tua
legge», o la «sua morale» e la «sua legge», esclusivamente;
meno ancora, la «nostra morale» e la «nostra legge», o la
«vostra morale» e la «vostra legge», esclusivamente e
nauralmente in contrasto e conflittualità con quelle di
coloro che, allo stesso tempo, vivono, coesistono ed
operano, direttamente o indirettamente con noi, all’interno
del nostro medesimo contesto. Ma la «morale» e la «legge» di
tutti i cittadini (simpatici o antipatici, amici o
avversari, favorevoli o contrari alle nostre idee, alla
nostra natura, al nostro modo di fare e/o alle nostre
predisposizioni e/o preferenze) che vivono, coesistono ed
operano, con noi, all’interno della medesima società.
Per «morale pubblica», naturalmente, si dovrebbe intendere
ciò che la totalità dei cittadini di una medesima società
avrà apertamente e liberamente deciso o sentenziato di auto
imporsi, nonché di riconoscere, di onorare personalmente e
di fare rispettare individualmente e collettivamente come
tale.
In altre parole, dovrebbero essere tutti i cittadini di una
medesima società e non un’esclusiva porzione o fazione
(maggioritaria o minoritaria) di questi ultimi, a stabilire
le «norme comuni» del «dovere societario»: il dovere di
ognuno, cioè, nei confronti degli altri, e viceversa.
Una volta che sarà stato concordemente fissato cosa si potrà
e cosa non si potrà pubblicamente fare nel contesto della
società in questione, la trasformazione di quella «morale
pubblica» in «Legge collettiva» di tutta la società,
dovrebbe essere automatica.
Inutile precisare l’inevitabile «taglione» che planerebbe
sulle teste dei «soci» di quella possibile e futuribile
società: chiunque, infatti, per una ragione o per un'altra,
dovesse rifiutare o dimenticare di rispettare i doveri che
egli stesso avrà deciso, confermato e sottoscritto di
auto-imporsi (o ciò che egli stesso avrà liberamente
dichiarato di fare o di non fare, nonché di onorare e/o di
rispettare personalmente), non potrà che prendersela con se
stesso. In particolare, quando, a causa di quella sua
volontaria o involontaria «infrazione» o «inosservanza»,
sarà, come minimo, costretto a pagare, «in contanti» e senza
appello, il prezzo generale e cumulativo della libertà
individuale e collettiva dell’insieme dei soci di quell’assennata
e ragionevole società!
Alberto B. Mariantoni
GdS 8 VII 03 www.gazzettadisondrio.it