L’embargo all'Iraq é un atto di responsabilità internazionale

di Enrico Galoppini


Riceviamo e pubblichiamo:



L’EMBARGO ALL’IRAQ E' UN ATTO D’IRRESPONSABILITA’ INTERNAZIONALE
CONTRO L’INDIPENDENZA DEI POPOLI

di Enrico Galoppini

"Italicum", anno XVIII - gennaio-febbraio 2003


Nel seguente articolo, sviluppando alcune sue precedenti
riflessioni[1], l’Autore affronta il tema della «responsabilità
internazionale»; idea richiamata più volte quando si tratta di
dare equa soluzione ad importanti ed urgenti questioni, ma che
risulta spesso astratta e malinconicamente povera di contenuti.


1. LO SCENARIO INTERNAZIONALE DELLA TRAGEDIA IRACHENA

1a. ‘Enduring embargo’

Decretato dalle Nazioni Unite in seguito all’ingresso delle
truppe irachene nel territorio kuwaitiano il 2 agosto 1990,
l’embargo all'Iraq prese il via in una congiuntura che induceva
buona parte dell’opinione pubblica internazionale ad attribuire
alle Nazioni Unite - malgrado tutti i difetti fin lì rilevabili
- una rinnovata aura di prestigio che seguiva la frantumazione
dell’Unione Sovietica. Un’«assemblea democratica», nella quale a
ciascuno Stato si dà garanzia di poter essere ascoltato e
tutelato dalle prevaricazioni dei più prepotenti: questa,
almeno, la sensazione diffusa in quella vera e propria «nuova
era» della positività universale che si sarebbe dovuta
inaugurare, non si sa perché, nel 1989. Perciò, a corroborare
una sensazione di sopraggiunta ed inedita efficienza dell’Onu,
giunse in seguito a quel fatidico 2 agosto 1990 una vera e
propria risma di risoluzioni che assieme a quelle che avevano
dato il via all’embargo perfezionavano la gabbia giuridica
calata sul «trasgressore». Alcuni sperarono in buona fede di
veder finalmente funzionare questo organismo internazionale
creato sotto i migliori auspici.


Senza entrare nel merito della storia che ha preceduto quei
fatti, davvero poco chiara (oppure molto, dipende dall’acutezza
dell’osservatore)[2], l’embargo ufficialmente doveva condurre al
rispetto della «legalità internazionale» da parte dell’Iraq. Ma
per ottenere degli effetti - che non devono certo essere quelli
della fame e della carestia per un intero popolo - ed evitare di
ricorrere all'intervento armato, si sarebbe dovuto attendere
ragionevolmente almeno qualche mese in più.


Invece, come si cerca di fare in questi giorni, l’Angloamerica
(con Israele in posizione defilata)[3] impose l’ultimatum di
prammatica (accompagnato cioè da condizioni inaccettabili per
l’Iraq, come per la Jugoslavia nel 1999), e l’attacco,
pianificato da tempo (si pensi all’apparato logistico necessario
ad ospitare centinaia di migliaia di militari americani in
Arabia Saudita) venne sferrato con l’ottima scusa
propagandistica del ristabilimento della «legalità
internazionale» - mai preteso con simile puntigliosità in altre
occasioni - ed ignorando del tutto il linkage operato da Saddam
Hussein con tutte le altre «questioni aperte» nel Medio Oriente.
Con precisione svizzera e senza sconti, si scatenò all’ora X la
cosiddetta «Tempesta nel deserto».

Ma con l’andare del tempo è apparsa evidente una contraddizione,
divenuta di una evidenza solare dopo che l’Iraq nell’estate del
1998 aveva soddisfatto tutte le condizioni per l’abolizione
dell’embargo[4]. Che ci troviamo di fronte ad un’organizzazione,
l’Onu, che da un lato, attraverso sue agenzie, si fregia del
contributo offerto al benessere e al progresso di popolazioni in
difficoltà, dall’altro è la prima responsabile di un vero
flagello ai danni di un Paese (tra l’altro membro fondatore
delle Nazioni Unite) e della sua gente.


1b. Una fabbrica di parole d’ordine

Dopo la fine dell’Unione Sovietica e dell’equilibrio delle
forze, l’unica potenza rimasta sulla faccia della Terra ha
compreso di aver bisogno della maschera delle Nazioni Unite in
misura ridotta rispetto a prima. Da quel momento l’Anglosionamerica
agisce sempre più spesso a volto scoperto, come si constata
oggigiorno. «Anglosionamerica» potrà anche far sorridere o
indignare, o altro, per assonanza con la balzana idea di un
complotto demo-pluto-giudeo-massonico, ma una volta presa
coscienza che la storia non procede per complotti (che possono
anche essere in atto, ma il problema è credere immancabilmente
nel loro inveramento) non è peregrino sostenere che il nucleo
determinatosi a vedere l’Iraq in rovina (e in seguito chissà
chi) è quello espresso da quel termine. Che ha anche il pregio
di definire, per esclusione, il campo di quell’Europa che –
diluita nell’«Occidente» - si ritrova regolarmente spiazzata sul
piano diplomatico per mancanza di una sua politica e di un suo
esercito. In pratica, l’Europa non c’è[5].


Nel 1990 prese dunque il via una nuova tappa di un progetto di
dominio planetario proseguito con le aggressioni alla Serbia e
all’Afghanistan; un futuro burrascoso che si profila per altri
Stati e i loro popoli, se solo pensiamo alle reiterate minacce
rivolte all’Iraq e agli altri Stati dell’«Asse del male» Iran e
Corea del Nord, fatti rientrare nell'eterno schema manicheo e
che non a caso - come Serbia e Afghanistan - occupano una
posizione strategica a ridosso della massa continentale
eurasiatica.


Ma dopo il 1989, quando la presa di fatto e propagandistica
angloamericana su varie zone del pianeta rischiava di perdere
vigore, in attesa dell’auspicato scontro finale con l’ex «Impero
del Male» russo e con la Cina, gli Stati Uniti avvertirono con
un urgenza il bisogno di una riedizione dello schema della
«guerra fredda», questa volta puntando il dito contro il mondo
islamico, sfruttando le parole d’ordine del «terrorismo» (un
motivo comunque sempre latente nella propaganda del Pentagono e
perciò di Hollywood) e dell’«integralismo islamico». Una replica
puntellata dalla teoria dello «scontro delle civiltà», il quale
non è certo una sorta di naturale sviluppo degli eventi come gli
Stati Uniti vorrebbero far credere, bensì una dottrina preparata
nei think tank in cui si fabbrica l’ideologia al servizio delle
multinazionali angloamericane. Multinazionali che - sia detto
per inciso – si fanno forti del braccio armato di una
Federazione cronicamente indebitata con l’oligarchia finanziaria
che detiene, in ultima analisi, anche il reale controllo di
quelle multinazionali.


Dal 1989 gli Stati Uniti erano davvero orfani della «guerra
fredda» con l’Unione Sovietica, un’invenzione con cui hanno
tenuto in scacco il mondo intero, con tutto quel che ne è
conseguito in termini di sofferenze per milioni di persone
massacrate con la scusa della «guerra al comunismo». Ma gli
Stati Uniti sono il Paese per antonomasia della pubblicità, per
cui non c’è motivo di dare eccessivo credito alle loro trovate.
Già immediatamente dopo il riposizionamento russo avvenuto con
Gorbaciov, essi avevano inventato lo slogan della «fine della
Storia», il quale tradiva l’intento di porre fine a qualsiasi
contenzioso su chi dovesse guidare le sorti del mondo e su quale
dovesse essere il modello da adorare e da applicare sempre ed in
ogni luogo, quello del «mercato», una forma profana del
monoteismo applicata al culto del denaro e del successo. Oggi
però nessuno disquisirebbe seriamente sulla «fine della Storia»
di Fukuyama, eppure, mentre fior di esperti organizzavano
dibattiti in tema, proprio in Iraq si viveva la Storia in
diretta. Una Storia di bombe e di embargo.


Ad ogni modo, malgrado abbiano gettato progressivamente la
maschera a partire dall’attacco all’Iraq, gli angloamericani
sanno che indossarla paga ancora: le organizzazioni
internazionali come le stesse Nazioni Unite, la Nato, il WTO, il
G8, il Fondo Monetario, la Banca Mondiale, grazie alla
cooptazione di facciata degli europei al tavolo delle decisioni,
fanno appunto da cortina fumogena.


1c. Riformare l’Onu?

L'Onu è a tutti gli effetti un organismo moribondo, manipolato
oltre ogni decenza, eppure un autentico atto di «responsabilità
internazionale» potrebbe venire rappresentato dall’avvio di un
suo processo di riforma, a partire dall’evidente anacronismo di
un Consiglio di Sicurezza che fotografa un equilibrio di forze
vecchio di sessant'anni. Da strappare quindi al ferreo controllo
angloamericano.


E' quella, difatti, l'unica sede che dispone della necessaria
legittimità per far rispettare il diritto internazionale, che
non è il diritto del più forte. Del resto, principio base del
diritto internazionale è che esso venga fatto rispettare a tutti
e che la risposta della Comunità internazionale sia
proporzionale alla trasgressione commessa da uno degli Stati
aderenti.


La cosiddetta Guerra del Golfo, intrapresa ufficialmente nel
nome del «rispetto del diritto internazionale», ha sancito
invece, violandolo apertamente, la «fine del diritto
internazionale» stesso, aprendo l'era dell'illegalità
internazionale programmata. Iraq 1991, Serbia 1999, Afghanistan
2001, solo per citare i casi più eclatanti, sono tanti anelli di
una catena: quella che gli angloamericani intendono stringere al
collo al nemico di sempre, la Russia, occupando il territorio
dei differenti teatri di guerra con basi militari (avamposti per
nuovi attacchi e garanzia di protezione/sovversione di regimi
fantoccio o sfuggiti di mano) ed assicurandosi lo sfruttamento
delle ricchezze locali, sottratte ai legittimi proprietari e
destinatari. Poi, perché più di uno per volta non si può,
penseranno anche alla Cina, che, come osserva Giulietto Chiesa
nel suo La guerra infinita, è l’unico Paese al mondo che può
prendere decisioni senza chiedere il permesso agli Stati Uniti.
Una realtà che ancora garantisce un qualche equilibrio,
minacciato però dall’inserimento della Corea del Nord nell’«Asse
del Male»: un’ottima base per colpire sia Russia (Vladivostok è
a un tiro di schioppo) che Cina (già insidiata dal lato Kirghizo).


Infine, colpo di genio, mentre si tiene in scacco il mondo con
la lotta al «terrorismo» di matrice islamica, in entrambi gli
scenari vengono sguinzagliati gli unici musulmani utili al
progetto di dominio globale angloamericano, i mercenari del
jihâd[6].


2. INDIPENDENZA E CORRETTA INFORMAZIONE

Pur consapevoli che una potenza economica, per quanto
considerevole, se non supportata da un adeguato apparato
deterrente militare non basta per veder prese in considerazione
le proprie prese di posizione, un’Unione Europea desiderosa di
assumere un ruolo coerente con un patrimonio ideale in virtù del
quale essa ritiene di distinguersi da un modello di origine
biblica mirante all’uniformazione del mondo, deve trovare il
modo di condurre un’iniziativa di riforma del consiglio di
sicurezza dell’Onu e il coraggio di denunciare, nei fatti,
l’ingiustizia e l’arroganza di comportamenti quali il
mantenimento ingiustificato ed illegittimo dell’embargo all’Iraq
o la distruzione della presenza autoctona in Palestina da parte
di chi fa carta straccia di ogni risoluzione dell’Onu (senza che
venga adottata alcuna misura coercitiva). Ciò significherebbe
un’inversione di rotta rispetto ad una stagione di più o meno
forzata acquiescenza ai voleri dei vincitori del secondo
conflitto mondiale ed inaugurarne una nuova, quella della
«responsabilità internazionale» a trazione europea.


Si tratta di un tipo di responsabilità che si intreccia
fortemente a quella relativa ad una corretta informazione,
un’informazione credibile che tenga conto delle ragioni di
tutti, in special modo quando il «nemico» di turno non è affatto
nostro nemico, bensì nemico d’altri, che a loro volta si
dimostrano nemici dell’Europa.


Per la partita decisiva dell’informazione i mezzi e le capacità
certo non difettano, né agli europei né al nemico tattico,
«islamico», del momento, che con il canale satellitare del Qatar
«al-Jazira» offre una lezione d’imparzialità giornalistica che i
nostri monotoni notiziari dovrebbero assimilare.


2a. Tenere alta la tensione in vista degli sviluppi

Sulla stampa e le tv italiane, del legittimo governo iracheno si
offre un’immagine fortemente negativa, quasi che si trattasse di
una banda di gangsters. Anche per i commentatori meno prevenuti
vale un assunto incrollabile: la colpa del dramma dell’Iraq è da
addebitare al solo Saddam Hussein. Per il resto, l’Iraq e gli
iracheni li si rammenta di rado, anzi si evita proprio di
ricordarli, per pudore, dato che si sarebbe costretti a parlare
dell’assurdità dell’embargo che li opprime. Dopo l’11 settembre,
tuttavia, l’Iraq è stato fatto oggetto di qualche attenzione dai
media italiani, con il regolare intento di screditarne
l’immagine.


Si pensi all’accusa, reiterata ad intermittenza, e senza
produrre la benché minima prova credibile, di figurare tra i
registi occulti degli attacchi a Washington e a New York, o a
quella di aver architettato la diffusione delle famose «lettere
all’antrace», poi rivelatesi una faccenda interna agli Usa.
Oppure, nel marzo scorso, ai sedicenti colpi di mortaio
all’indirizzo del Kuwait; la smentita kuwaitiana? Rintracciabile
solo in qualche trafiletto. Neppure vengono tralasciate le prove
tecniche di reazione dell’opinione pubblica: ci si è così
provvidenzialmente ricordati di un pilota americano che sarebbe
prigioniero in Iraq dal 1991. Le ‘quotazioni’ dell’attacco
all'Iraq dunque salgono e scendono, ma esso si renderà
«necessario» in caso di «rifiuto» delle ennesime e pretestuose
ispezioni dell'Onu alla ricerca di «armi di distruzione di
massa» (mentre si può affermare che sono gli Stati Uniti i più
attrezzati in tal senso: a seguire i vari ‘presidenti’ loro
alleati, come Musharraf); quando l’Iraq le accetta, ecco che si
insinua che il «dittatore» sta solo prendendo in giro il mondo.
Ma è ricorrendo alle accoppiate da brivido che la propaganda
filo-occidentale si garantisce un successo assicurato: elargendo
25.000 dollari a ciascuna famiglia dei resistenti palestinesi
(cioè i «terroristi» dei telegiornali), Saddam Hussein
incoraggerebbe un'altra terribile forma di «terrorismo». Questo,
in attesa che i creativi di trame da fantapolitica diano gli
ultimi ritocchi alla sceneggiatura più probabile: Osama e Saddam[7].
Per concludere con questi esempi, se solo ci si ricorda che gli
strilloni del Pentagono (di prima e di seconda mano, tipo certi
corrispondenti italiani) sono giunti addirittura a presentarci
un complotto ordito dal «figliastro» di Saddam Hussein, il quale
avrebbe pianificato di rovinare agli americani la festa del 4
luglio, ci si rende conto del livello farsesco cui si è
pervenuti.


Ebbene, tutte queste cose vengono riportate dalle tv italiane
come se si trattasse di verità di fede rivelate, senza
affiancarvi alcun dubbio o commento e, quel che è veramente
grave per un’informazione che si dice «libera», senza concedere
possibilità di parola a chi si trova costantemente sul banco
dell’accusato, ovvero l’Iraq.


2b. ‘Effetti collaterali’ dell’embargo

Ma questa situazione è appunto uno degli «effetti collaterali»
dell’embargo.


Come l’Iraq non può neppure pagarsi gli avvocati con i ricavi
della vendita del petrolio del tanto decantato programma «Oil
for Food», l’embargo decreta la morte mediatica di questo Stato,
cui viene precluso ogni canale per far sentire la propria voce
al resto del mondo. A questo punto, tutte le calunnie sono
permesse.


Tuttavia, se cerchiamo altri canali d’informazione, veniamo a
sapere di avvenimenti ben più importanti delle invenzioni delle
tv occidentali agli ordini di Washington. Si prenda ad esempio
il seppur cauto riavvicinamento tra Iraq e Kuwait avvenuto lo
scorso fine marzo a Beirut[8], di cui i cosiddetti mezzi
d’informazione si guardarono bene dal fornire troppi ragguagli.
Se questo fosse stato noto ai più, sarebbe certo risultato più
difficile far digerire un eventuale attacco, dato per imminente
da un anno e più. Oppure si pensi all’altro riavvicinamento,
quello per forza di cose avvenuto tra i «Rogue States» del mondo
arabo e islamico: Siria, Iraq e Iran. Ma ciò non conta per
«accreditati esperti» che possono continuare a bignameggiare su
«gli sciiti che si ribelleranno ai sanniti» e via dicendo.


Quello del controllo dei mass media è un problema grave che in
Europa va affrontato al più presto. Ammesso che ciò venga
avvertito come tale da almeno qualche uomo politico disposto a
sacrificare l’incolumità sua e dei suoi familiari… In caso
contrario tutti dovranno arrendersi a considerare tv e giornali
come meri megafoni per i proclami che gli angloamericani e i
loro alleati sionisti lanciano senza tema di smentita[9], con
buona pace di chi crede che tutto il problema si riduca al
semimonopolio berlusconiano.


Per di più, il possesso dei media permette agli angloamericani
di far credere senza limiti sia la loro capacità militare,
costantemente esagerata da Hollywood, che quella del nemico di
turno, in maniera da giustificare azioni sproporzionate rispetto
agli obiettivi. In realtà, la superiorità militare statunitense
si limita al primato nelle armi nucleari e al controllo totale
dei cieli da cui operano bombardamenti terroristici, mentre è
ormai chiaro che come forze terrestri essi sono come tutti gli
altri, ossessionati come sono dal non subire perdite tra i
propri uomini[10].


2c. Vari argomenti addotti per non togliere l'embargo

er giustificare il mantenimento dell’embargo gli angloamericani
hanno addotto fin qui vari argomenti.


L’Iraq produrrebbe e/o custodirebbe «armi di distruzione di
massa», malgrado le ispezioni dell’Onu - infiltrate da spie
statunitensi, com’è stato rivelato da alti funzionari delle
Nazioni Unite dimessisi per decenza[11] - abbiano certificato il
contrario. E’ chiaro a questo punto che l’Onu, quando non svolge
a dovere il ruolo da paravento assegnatogli, non viene ascoltato
affatto, né dagli Usa né dai loro fidi alleati britannici e
israeliani: si pensi ai dubbi sollevati a suo tempo dalle
autorità israeliane su quanto affermò l’inviato dell’Onu in
visita a quel che restava del campo profughi di Jenin. Il
risultato aberrante è così l’ergersi a norma di una doppia
morale, che finisce beffardamente per imporsi proprio ad opera
di coloro che hanno imposto al mondo il culto della
testimonianza: se persecutori e perseguitati non sono quelli
insigniti della ‘coccarda del Bene’, si pretende la verifica e
il confronto delle opposte versioni - interrogandosi se caso mai
non si tratta di propaganda - e si finisce per negare
addirittura l’evidenza: “I massacri di Jenin sono propaganda
palestinese”.


A quale stratagemma ricorrono allora gli angloamericani e i
sionisti, una volta messa alle corde l’inconsistenza delle loro
pretese? Che per evitare il possesso di «armi di distruzione di
massa» bisogna distruggere con «armi di distruzione di massa»
l’Iraq! Niente di nuovo sotto il sole, poiché è questo sofisma
quello che sta alla base del terrorismo di Stato angloamericano
sulle «No Fly Zone» irachene - che mai risoluzione Onu ha
ratificato - e di quello israeliano delle «operazioni
preventive»: gli angloamericani bombardano chi dicono di voler
proteggere con quel provvedimento e Israele distrugge
addirittura una città intera per il timore di essere distrutto.
E non si tratta di «falchi» o di «pazzi», come la loro stessa
propaganda li dipinge. Far credere che si è «pazzi» (o dare del
«pazzo» al nemico, il che è lo stesso) è semplicemente un trucco
per impedire agli spiriti suggestionabili un'analisi impietosa
della politica estera degli Stati Uniti, sfrondata dalla
retorica di Stato americana che purtroppo anche parecchi spiriti
critici faticano a riconoscere per quel che è.


Quando si è a corto di argomenti ci si appella infine alla
presenza di un «dittatore», un messaggio che in fondo paga
sempre (non per niente la cultura dominante insiste con l’idea
della Bestia assoluta nella Storia, il Nazismo). Strano
ragionamento, perché gli stessi che si dolgono del «deficit di
democrazia» in Iraq o in Palestina ricevono con tutti gli onori,
a Washington come a Londra, massacratori d’innocenti e
torturatori dei loro popoli di ogni specie. L'Iraq inoltre non
farebbe parte del novero dei Paesi arabi «moderati». Che cosa
significa «moderati»? Non è certo il contrario di «estremista»,
perché il primo esempio di paese non «moderato» sono proprio gli
Stati Uniti. Anche l'Iraq era «moderato» e «pragmatico» negli
anni Ottanta (quando non a caso partecipò anche ai mondiali di
calcio del 1986, a conferma del connubio tra sport e politica),
poi sappiamo che cosa è successo. In realtà «moderato» significa
«non ci crea problemi».


Nel caso dell’Iraq non si può neppure agitare lo spauracchio
dell’«integralismo islamico»: lì vivono cristiani e musulmani in
buona armonia, tanto che il numero due dello Stato è cristiano e
anche il patriarca assiro-caldeo Raphael Bidawid sostiene (in
perfetto italiano!) che i pretesti addotti per colpire l’Iraq
sono del tutto campati in aria.


Ma se volessimo infine una cartina di tornasole per evidenziare
la buona fede di chi minaccia l’Iraq, sarebbe sufficiente notare
che coloro che individuano sempre nuovi motivi per mantenere
l’embargo all’Iraq sono gli stessi che si dimostrano
indifferenti verso la pulizia etnica ai danni dei palestinesi e
che non trovano nulla di[12] disdicevole nel fatto che in
Venezuela, un presidente regolarmente eletto, Hugo Chavez, venga
pian piano esautorato (ma non è detta!) da un golpe
sponsorizzato dagli industriali locali e non, dal principale
sindacato (di fatto, «giallo»), dall’alto clero ‘opusdeiano’ e
dall’immancabile triade anglosionamericana.


3. SVINCOLARSI DAL CONTROLLO AMERICANO

3a. La responsabilità dei Paesi liberi: costituire un nuovo
fronte dei «Non allineati»


Qui evochiamo un altro significato dell'espressione
«responsabilità internazionale».

Esiste a mio parere un obbligo morale da parte dei Paesi - o
delle semplici forze politiche - che si autodefiniscono
«democratici»: quello di appoggiare tutti quei governi dei Paesi
«in via di sviluppo» che intendono gestire in prima persona le
risorse del loro Paese in nome dell'indipendenza nazionale e del
progresso sociale. Ma sull’Iraq, alla luce della rovina causata
da dodici anni di embargo è lecito chiedersi se il movente
principale, piuttosto che l'infrazione della «legalità
internazionale» da parte di Baghdad nell'agosto 1990 (del resto
già sanzionata con l'intervento armato denominato «Desert Storm»),
non sia da ricercare nella volontà di punire un Paese del Vicino
Oriente desideroso di intraprendere un proprio percorso di
modernizzazione affiancato da una linea autonoma in politica
estera. I proventi della vendita del petrolio iracheno, come
ebbe ad affermare Edward Luttwak, erano difatti investiti non
solo in armi, ma anche in istruzione (compresa l'imprescindibile
formazione di tecnici locali), sanità, infrastrutture e
industrie. E tutto, ripetiamolo, senza alcuna ombra di
«integralismo islamico». Una realtà scomoda dunque?


Se non altro, al riguardo, il comportamento delle organizzazioni
internazionali può dirsi contraddittorio. Si accetta di
«aiutare» un Paese «in via di sviluppo» solo se esso accetta di
posporre tale «sviluppo» all'infinito. Ma quando decide di
gestire in autonomia le proprie risorse scatta la rappresaglia e
si mette in moto il lavaggio del cervello mediatico giocando con
gli stratagemmi lessicali che garantiscono una sufficiente
rendita d'opinione pubblica: quello è «comunista», quell'altro è
«integralista», quell'altro ancora è «nazista» eccetera.


Non è un caso che tra i primi messaggi di congratulazioni al
presidente venezuelano Chavez, dopo il golpe dell’aprile 2002
che seguiva di pochi giorni la decisione dell’Iraq di chiudere
il rubinetto del petrolio, sia giunto quello dell’Iraq, quello
di un Paese e di un popolo che sanno bene che cosa significhi
l’intromissione straniera nei propri affari al fine d’indebolire
la compagine nazionale. Se le cose continueranno a marciare in
questa direzione si dovrà prendere in considerazione - e ci
auguriamo che lo faccia un’Europa forte e indipendente - l’idea
di un nuovo fronte dei «non allineati», di quei Paesi che
rifiutano il «Nuovo Ordine Mondiale» declamato dagli Usa proprio
in occasione della Guerra del Golfo e che campeggia sulle
banconote da un dollaro. Un fronte non ideologico, capace di
unire realtà molto diverse, ma che in testa alle sue
preoccupazioni abbia una sola parola: «indipendenza» e
«progresso sociale».


Fidel Castro, Chavez, Milosevic e Saddam Hussein hanno, a ben
vedere, un fattore in comune, che non è né quello di essere
emersi da quelle «consultazioni democratiche» che gli
angloamericani cercano di imporre quando fa loro comodo né il
colore politico con cui si presentano ai loro popoli: essi
piuttosto, in vario modo (bombardamenti, embarghi, processi
farsa, tentati colpi di Stato, ricatti, diffamazione, isolamento
diplomatico) ed utilizzando pretesti differenti («terrorista»,
«populista», «criminale di guerra», «comunista», «nazista») sono
stati attaccati dagli angloamericani e dalla loro appendice
sionista perché rifiutano l'abdicazione alla sovranità
nazionale.


D’altronde, quando si tratta di obbedire a Zio Sam non c’è
colore che tenga: Blair e D’Alema sono «di sinistra», eppure il
primo ha fatto sganciare più bombe del conservatore Major,
mentre il secondo passerà alla Storia come il Primo Ministro
italiano che ha autorizzato il bombardamento all’uranio
impoverito di un paese europeo dirimpettaio (l’uranio impoverito
è un altro elemento di solidarietà condiviso da chi viene
colpito dagli angloamericani!). Chi non ricorda la signora
Madaleine Albright, che alla tv italiana, in diretta telefonica,
lanciava ultimatum al «nazista» Haider? La stessa persona per la
quale i morti civili per l'embargo in Iraq sono un «male
necessario». E come non collegare le ferme parole con cui Fidel
Castro (riproponendo storiche iniziative irachene) stigmatizzò
la vera natura dello Stato d’Israele alla Conferenza sul
razzismo di Durban al rinnovato inasprimento dell'isolamento in
cui gli angloamericani intendono mantenerlo? Fidel Castro,
Chavez, Milosevic, Saddam Hussein, e per certi aspetti anche
Haider[13] - pur tra mille differenze - sono stati presi di
punta dagli angloamericani (che mandano avanti i mille
collaborazionisti che hanno a disposizione nella politica e nei
media) perché si sono messi in testa una banalissima idea
semplicemente intollerabile per chi si crede investito della
missione di guidare il mondo: quella di comandare a casa
propria.


Slogan come «il Venezuela ai venezuelani» o «l'Iraq agli
iracheni», nella loro essenzialità, e se interpretati senza
smanie esclusiviste, contengono in nuce tutti i successivi
sviluppi benèfici, compresa un’equa distribuzione del progresso
sociale, perché prendono in considerazione un Paese libero da
condizionamenti imposti dall'esterno (direttamente o attraverso
i vari camuffamenti angloamericani tipo G8).


La pratica dell'embargo è perciò anche un atto intimidatorio, un
monito rivolto a tutti coloro che provano a smarcarsi dal
controllo angloamericano: “visto che cosa accade a chi osa
contrastarci”? Ma, quel che vi è di peggiore in tutto questo,
l'Iraq è diventato il ‘laboratorio a cielo aperto’ degli
esperimenti del «Nuovo Ordine Mondiale»: distruzione
dell'economia attraverso il bombardamento degli impianti
industriali e delle infrastrutture, embargo come terapia di
mantenimento di uno stato di prostrazione, stillicidio di raid
aerei al fine di provocare e di mantenere alta la tensione.


3b. Un’assunzione di «responsabilità regionale»

Esiste poi una «responsabilità internazionale» a livello
regionale, mediterraneo. La storia dei rapporti tra l’Europa e
il mondo arabo-islamico, per chi non è prevenuto, è a
disposizione in libri di facile reperimento[14]. Alcune pagine
di questa storia ci parlano anche delle relazioni italo-irachene,
ma restano volutamente semisconosciute: dai buoni rapporti tra
l’emiro Faysal con l’Italia fascista all’(insufficiente)
appoggio fornito da quest’ultima all'insurrezione antibritannica
del 1941[15], una linea confermata dalla politica comune
regionale e petrolifera svolta all’epoca del Primo Ministro
Craxi e del ministero degli Esteri guidato da Andreotti (guarda
caso nell’occhio del ciclone negli anni di «Tangentopoli», un
processo che – considerata la sovranità più che limitata del
nostro Paese - è difficile ricondurre solo a dinamiche interne).


Qui è il caso di ricordare il danno derivante a tutti noi
dall’accettare senza battere ciglio le politiche decise a
Washington, Londra e Tel Aviv. Si pensi che all’inizio degli
anni Ottanta il volume di affari tra Italia e Iraq era di circa
4.200 miliardi di lire; ebbene, nel 1992 era ridotto ad un
miliardo. Che cosa guadagna quindi l’Europa dall’accettazione di
queste politiche deliberatamente antieuropee attuate con
l’avallo di una Gran Bretagna sentinella degli interessi
americani in Europa e di un Israele che addirittura alcuni
vorrebbero far aderire all’Unione Europea?[16] Un boomerang più
bollente della proverbiale patata in cambio della rovina dei
rapporti con due intere sponde del Mediterraneo e oltre.


La Guerra del Golfo e l'embargo all'Iraq, in seconda battuta,
costituiscono perciò un aperto atto di ostilità sia verso il
mondo arabo che verso l'Europa, le cui fonti energetiche vengono
poste sotto rigido controllo angloamericano.


La «responsabilità internazionale» a livello mediterraneo
consiste dunque nel creare una rete di relazioni bilaterali
politiche, culturali ed economiche tra Europa e mondo arabo, i
cui rappresentanti però devono imparare a capire chi sono gli
amici e chi i nemici. Per questo è importante la proposta
irachena di effettuare i pagamenti in euro, che se seguita da
altri svincolerebbe l’Europa dalla necessità di acquistare
dollari. Tuttavia esiste un grave ostacolo, che è quello
dell’inesistenza di un credibile progetto di unità tra i Paesi
arabi, quale poteva essere quello inscritto nella costituzione
del partito Ba‘th, guarda caso quello al potere a Baghdad. Esso
comporterebbe - va da sé - una rinuncia da parte di tutti i
contraenti di una parte della propria sovranità e di alcuni
privilegi, ma nell’epoca dei grandi spazi geopolitici che si sta
inaugurando, solo in questa prospettiva il mondo arabo potrà
avere un ruolo fattivo.


Diciamolo chiaramente: l’embargo è anche frutto della paura che
nel mondo arabo si creasse un forte polo di attrazione in grado
di unificarlo sotto le insegne del nazionalismo panarabo[17].
L’embargo contro l’Iraq è difatti lo strumento con cui si evita
che esso possa tornare a pieno titolo sulla scena mediorientale.
Inoltre, un Paese sotto embargo, per quel credito di cui godono
i «promotori del Bene» angloamericani, e proprio perché essi ne
hanno insinuato l’intrinseca malvagità (“se c’è un embargo un
motivo ci sarà”), resta un Paese suscettibile in ogni momento di
essere aggredito senza che gli aggressori debbano giustificarsi
troppo (anche Iran e Corea del Nord hanno difatti i loro
embarghi, non si sa mai).


3c. Conclusione: un’irresponsabilità conveniente?

Con la «fabbricazione delle opinioni» operata dai media
controllati da lobbies che fanno capo agli Usa e ai loro due
valletti, per molte persone è difficile comprendere la
dimensione dell’inganno.


Alcuni, inebetiti dalla propaganda, credono addirittura che
anche prima dell'embargo l'Iraq fosse un paese «arretrato». Tra
questi c’è anche chi non ha sentito altre campane, ma la maggior
parte di essi sposa le tesi ufficiali per puro opportunismo,
ritenendo che appoggiare tutte le malefatte di questa triade
significhi garantire il proprio benessere, la prosecuzione
indefinita di un modello ‘sviluppista’ garantito solo ad
un’élite di privilegiati. C’è di che ritenere che questo si
rivelerà un calcolo non solo ingiusto, ma anche miope, perché in
questo modo si alimentano umanissimi risentimenti e desideri di
vendetta. Detto in altre parole, vale la pena di mandare
‘ascari’ in Afghanistan spacciando tutto ciò per ‘pragmatismo
cavouriano’, per poi raccattare tutt’al più le solite briciole
alla mensa del re e, magari, essere oggetto di atti di
ritorsione da parte chi potrebbe non distinguere più tra i
comportamenti della triade e, nel caso specifico, del nostro
Paese?


Ma, come che sia, ai pochi fortunati che hanno l’opportunità di
andare a verificare di persona, il popolo iracheno riserva una
lezione di civiltà: quel che colpisce è l’assoluta coscienza, da
parte di chi soffre l’embargo, in tutti gli strati sociali, di
una situazione imposta da un’oligarchia che parla inglese e che
si fa beffe di qualsiasi volontà popolare.

______________________


[1] Colpo di Stato in Venezuela: la trama dei “soliti noti” e
una lezione da apprendere (pubblicato sul sito dell’Associazione
«Limes»: http://www.asslimes.com/nel%mondo/venezuela/venezuela3.htm);
la Prefazione a Padre Jean-Marie Benjamin, Iraq, trincea d’Eurasia
(libro-intervista a cura di Tiberio Graziani), Edizioni
All’Insegna del Veltro, Parma 2002, pp. 5-16 (messa in rete da «Clorofilla.it»
alla seg. url: http://www.clorofilla.it/cdd.asp?action=download&file=195);
al-Mas’uuliyya ad-Duwaliyya wa al-hazhr: ba‘du at-ta’ammulaat
[La responsabilità internazionale e l’embargo: alcune
riflessioni]: relazione tenuta al Convegno internazionale The
Illegality of Continuation of Embargo on Iraq, «Bayt al-Hikma»,
Baghdad, 1-2 Maggio 2002.

[2] Consigliamo due letture, una coeva a quegli avvenimenti,
Alberto B. Mariantoni, Gli occhi bendati sul Golfo, Jaca Book,
Milano 1991, l’altra appena pubblicata, P. Jean-Marie Benjamin,
Obiettivo Iraq. Nel mirino di Washington, Editori Riuniti, Roma
2002.

[3] L’ennesima conferma è venuta dal Tg3 delle 14.15 del 25
settembre 2002, quando il corrispondente da New York, intento a
convincere i telespettatori dell’improrogabilità di un attacco
all’Iraq, ha elencato i possibili obiettivi di un futuribile
attacco missilistico iracheno insistendo sulla gittata di tali
armi: “I paesi del Golfo, la Turchia, il sud della Grecia…”.

[4] L’ex capo degli ispettori dell’UNSCOM, Scott Ritter, l’ha
affermato ancora di recente a Baghdad. Cfr. Scott Ritter:
“L’Iraq non è un pericolo”, http://www.aljazira.it/02/09/10/ritter.htm.

[5] Contorni grotteschi ha assunto il rifiuto opposto non molto
tempo fa dalle autorità israeliane di incontrare il ‘ministro
degli Esteri’ dell’UE Xavier Solana, rispedito a casa senza
nemmeno i saluti di routine.

[6] Ospitati in gran numero nel… ‘Londonstan’!

[7] Per questo si fa periodicamente riferimento ad un mai meglio
precisato incontro avvenuto a Praga, prima dell’11 settembre,
tra un alto esponente iracheno ed un «emissario» di Al-Qa‘ida.

[8] Oggi però, dopo il discorso di Saddam Hussein del 7 dicembre
2002 rivolto al solo «popolo kuwaitiano», pare essere ripiombato
il gelo sulle relazioni tra i due Paesi.

[9] Uno dei più frequenti, strano a sentirsi da campioni della
libertà e dell’autodeterminazione dei popoli, quello della
necessità di favorire l'ascesa di un «Kharzai iracheno».

[10] Cfr. John Kleeves, Sacrifici umani, Il Cerchio, Rimini
1993.

[11] Ci riferiamo a Scott Ritter, capo degli ispettori
dell’UNSCOM (la commissione dell’ONU per il disarmo) fino a
tutto il 1998, dimissionario a causa delle divergenze insorte
con il capo della commissione, l’australiano Richard Butler, che
passava le informazioni raccolte dagli ispettori prima agli
americani e poi all’Onu. Questo, per non parlare di Hans Von
Sponeck e di Dennis J. Halliday, ex responsabili del programma
umanitario dell’ONU ritiratisi dopo aver realizzato l’inanità di
ogni loro sforzo a causa delle pressioni angloamericane.

[12] E’ quanto ha affermato nel corso di un dossier andato in
onda su «Rai Uno» il 12 luglio 2002.

[13] Uno dei pochi leader politici europei di rilievo ad essersi
recato in Iraq in tempi recenti [l’articolo è stato scritto
prima dell’iniziativa del Vaticano e della visita a Baghdad del
segretario del PC russo Djuganov].

[14] Ad es. Franco Cardini, Europa e Islam. Storia di un
malinteso, Laterza, Roma-Bari 2000.

[15] Cfr. Stefano Fabei, Guerra santa nel Golfo, All’Insegna del
Veltro, Parma 1991. Cinque anni prima l’Italia aveva sostenuto -
soprattutto nel corso della prima parte - la grande insurrezione
palestinese, protrattasi fino al 1939.

[16] Qui sorge il dubbio che gli americani cerchino di scaricare
sulle spalle di noialtri europei le spese per il mantenimento di
un loro pupillo talvolta troppo ‘viziato’.

[17] Mentre c’è chi, da più di due secoli, ad onta delle
dichiarazioni di facciata, alleva nel suo seno ineffabili mullah
dotati dell’immancabile ‘corredino islamico’ e spediti a
guerreggiare in nome di interessi geopolitici contrari a quelli
della nazione araba.

Enrico Galoppini


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Enrico Galoppini
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