L'Italia, la Valtellina che ci piace
Da una piccola realtà' meccanica nella verde piana di Berbenno a una solida Ditta che dà lavoro a oltre 100 persone. Molte le esperienze di Vittorio Mainetti. Il giovane valligiano, nel fiore degli anni, si era ritrovato nel continente nero al seguito di un tale Gasperini, finendo a lavorare nel cuore di un Sudafrica dall'assurda apartheid. Un cercatore d'oro, in tunnel bui ed infiniti, scavati da nere presenze, schiavi abbruttiti che si muovevano a fatica nel ventre di una montagna sventrata da forti esplosioni in cerca di una vena che avrebbe arricchito i già' opulenti padroni. Poi il ritorno a servire la Patria tra i bersaglieri, scortando tra i fari l'aereo papale di Paolo VI o nel fango desolato del Vajont. “Ai miei valligiani commilitoni ho lasciato gli anfibi, quasi un passaggio di consegne del testimone prima di passare oltre frontiera, in terra elvetica a fare l'imprenditore”, racconta l'industriale valtellinese. E per lui fu tutto un brulicare di strade, gallerie e viadotti in Ticino fino alle cattedrali imponenti del Central Park e l'ospedale di Lugano o quello di Menaggio. La svolta nell'82 nella piana di Berbenno, rilevando una piccola azienda meccanica ormai in disarmo. Un'avventura spericolata per reggere alla concorrenza spietata, con l'acquisto di macchine avveniristiche. Poi, dopo il primo capannone, i nuovi terreni su cui edificare 5 nuovi tronconi della Valtecne. E così la specializzazione dell'alta tecnologia nella meccanica di precisione nel campo dei motori, della grande industria e in quello sanitario ha premiato la voglia di un uomo instancabile, lungimirante, sempre in cerca di nuove avventure, affiancato dal figlio Paolo che ha seguito con entusiasmo le sue orme. Al suo fianco Elsa, l’impareggiabile donna della sua vita venuta dalla terra eritrea, al seguito di papà Pierino Libera che a ridosso del Ventennio, ad Asmara aveva costruito la sua roccaforte nel mondo dei trasporti. Fino a quando… Era ormai tempo di cambiare aria. In Eritrea nel ’47 si avvertiva da qualche mese l’inquietante, insinuante refolo del mutamento in atto, ormai irreversibile, tra sciamannate scorribande armate per le vie di un’Asmara fiabesca in disarmo, corroborate dal livore maligno d’oltre Manica. Era la fine dell’impero, la decadenza, l’abbandono del mitico stellone italico, soppiantato dall’infido grifone della supponente e spavalda arroganza britannica. Avevano raccolto in tutta fretta le loro cose e, con la morte nel cuore, racchiuso nella mente tutti i loro ricordi, consci di un’anabasi triste e sconsolata. La piccola Elsa, poco più di tre anni, aveva lanciato un ultimo sguardo alla casa costruita con tanta fatica da solerti artigiani della valle di Teglio, alle linde tendine ricamate delle stanze, alla sua, alla lunga veranda che dal porticato si affacciava sul cremisi e il cinabro vermiglio delle rose e delle buganville in fiore che spiccavano sull’immacolato biancore delle margherite. Ancora un sguardo ai lunghi filari vermicolanti al sole nascente. Un ultimo amaro sospiro, e poi via, masticando l’attesa snervante. Papà Piero aveva venduto tutto, nulla più gli apparteneva in quella terra dolce e selvaggia, dai meriggi infuocati e dalle magiche notti d’ineffabili pleniluni stellati che avevano cullato i primi anni di vita della sua adorabile Elsa. L’acquirente della villetta fu un certo Bruno - solo pochi mesi più tardi la famiglia Libera apprese che Bruno Mussolini, primogenito del duce, era tragicamente scomparso in un incidente aereo - giunto lì con la sua conturbante, altera “sciarmutta”, un’avvenente fanciulla eritrea, poco più di un’adolescente in boccio dalla seducente bellezza, un’amante perfetta, coi suoi grandi occhi neri, il viso dolcissimo, la sinuosa silhouette da gazzella impaurita, che con cura aveva tratto fuori da ampie casse un subisso di pelli di leopardo sciorinandole sul nudo assito del salone di casa. Un’opulenza quasi beffarda per chi in tutta fretta aveva dovuto cellofanare sogni e speranze, segreti e emozioni, in un rozzo baule dalle grosse cerniere con i miseri avanzi di una ricchezza inimmaginabile agli altri. L’aria sferzante della notte matura avvolse naufraghi pensieri alla deriva mentre l’indiscreto lucore di una luna indolente vellicava sciabordanti emozioni in un brivido di tensione. Poi ecco udire in lontananza lo sferragliare di un treno sbuffante che, tornante dopo tornante, ingoiando buie gallerie che menavano a luce improvvisa tra artistici mosaici di mattoncini rossi e sassi lavorati, li avrebbe condotti in un vertiginoso dislivello, fino al porto, a Massawa, dove li attendeva in silenzio la “nave bianca”, la salvezza, con il lacerante distacco da un lembo felice di terra italiana nel cuore dell’Africa nera. Un’alba livida sull’arenile sabbioso di una terra ormai ostile. Profughi stanchi e deietti, con le loro masserizie ammassate sul porto di una salvezza che ci avrebbe condotti a una patria, lontana dai ricordi più cari. In fondo, al di là della savana solitaria, le estreme propaggini dell’acrocoro innalzato al cielo si erano appena svelate nel chiaro mattino. Lassù, a oltre 2400 metri c’era l’eterna primavera cullata dal ritmo lontano dei tamburi portato dal vento notturno. E lei era lì. Ammalata d’amore per il suolo natio. Un amore straziante e improvviso, come non mai, un amore ancora indistinto, appena avvertito, sfiorato dal cuore, eppure un incendio mai domo per una terra che la piccola Elsa aveva, inesplicabilmente, dovuto abbandonare. Il porto si era animato di colpo da ogni dove, tra irrefrenabili rivoli umani. In tutti lo stesso smarrimento, la stessa angosciante certezza di un lancinante commiato senza ritorno. Papà Piero teneva la piccola Elsa stretta in braccio, sorretta in quel molle abbandono, quel morbido abbraccio che solo un padre sa dare alla propria piccola per rincuorarla nell’oscuro momento di un distacco crudele, lo sguardo dritto al bastimento e agli altri teneri virgulti, condotti per mano dalla dolce Delfina, insostituibile compagna di vita, nelle mani la carta d’imbarco e quel che rimaneva del simulacro del loro passato africano. D’un tratto, quasi sbucata dal nulla, una piccola suora, cerea in viso, terrea l’espressione di fuggiasca senza alcuna speranza, provata da improvvidi eventi, si era avvicinata con passo felpato, poi con balzo felino, un guizzo improvviso, fulmineo, aveva ghermito la piccola, quasi fola di vento improvviso che stacca dal ramo l’ultima foglia avvizzita d’autunno, strappandola un sol colpo dalle braccia paterne e rovesciandosi poi a rotta di collo, in tutta furia, lungo l’asse d’imbarco, sottraendosi così ad un rapido controllo dell’ultima ora, per mettersi in salvo. Incredulo, quasi stranito, il genitore restò lì inebetito dal gesto repentino e inatteso, mentre la sirena segnava l’ora dell’ultimo imbarco. Sulla nave due provvide mani restituirono al trepido cuore materno la figlia, mentre la scia dell’alto bastimento segnato da un’imponente croce segnata di rosso li avrebbe portati in Italia. In Italia.