Come un’antica fiaba
di Nello Colombo
Quasi in un rewind d’autore che avvolge lentamente il nastro, senza scosse, in un reverse palindromo, mai sin-tono, il flashback si morde la coda mentre scorrono piano a ritroso le immagini di una giornata tutta da ricordare…
Gli ultimi bagliori dorati scintillano sulle lontane giogaie delle Retiche appena spruzzate di bianco, declinando lievemente al piano. La valle rifulge ancora, avvolta in una romantica ottobrata: una serica veste d’azzurro e di verde sprillante che già volge all’ocra brunita.
E’ ormai il tardo meriggio quando l’ultimo crocicchio adagiato sui candidi scranni della sala disco della Moia dispensa gli ultimi saluti. Luogo d’incontro e armonia poc’anzi col pianoforte in proscenio, gli spot lattiginosi che creano nicchie d’ombra per tessere un intimo ascolto, le voci gentili delle dame, prima di un ultimo caffè, tra l’umile omaggio muliebre d’una dolce Madonna che emerge da una scheggia satinata in pietra malenca, incisa dal “Cantore della sua Terra”, Silvio Gaggi, e gli encomi dovuti ai Benemeriti degli Insigniti. In grande spolvero il Conte Monzani che spira di nobile sentire nell’elogio solenne di antiche memorie e valori mai domi, accanto al fido Cavalier Pennati dalla lucente zazzera lungocrinita, l’antico pelo canuto, affinato nel tocco elegante ed austero di probo signore di corte. E poi ancora l’architetto delle stelle e delle guglie del tempio mariano della metropoli lombarda, l’inossidabile Grande Ufficiale, quel Piazza, pellegrino di fede e cultura nel mondo. Io, nel mezzo, quasi spettatore assorto di una pièce che prende l’anima transumanante per farne un sogno vibrante.
…il passo scivola ancora indietro, mai stancamente, ma felicemente compagno, lungo il vivere lento di una contrada felice e gaudente, trasfigurata da luci e colori di una natura armoniosa che canta. Fino all’antico maniero dei Paribelli, dove un tempo si giocavano le sorti di corte e contado rievocate in un film sulle umane miserie, tra conquiste e illusioni. Proprio là dove un tempo regnava la rocca dai grandi fastigi
popolata d’umili famuli in ispida lotta con la lurida bestia di fame e indigenza, e il cupo spettro dell’orribile morbo, sempre in agguato, pronto a mietere nei campi altrui marciando inesorabile per la sua macabra messe d’orrore e di morte. Una guerra nella guerra d’un secolo infausto. Eppure, ancor oggi sinistri bagliori tonanti si affacciano all’orizzonte e la mefitica peste ha solo mutato il suo nome.
Ancora un ultimo passo a ritroso…
Siamo nel virgineo candore della Casa votata alla giovine e bella Caterina, modello d’umile saggezza e di cultura, tabernacolo d’onore e di virtù, e per questo affidata per la gloria di Cristo alla ruota dentata, dove Don Francesco si fa solenne oratore e solerte seminatore di alate parole. A straziare il cuore il violino incantato d’un Francesco venuto da lontano col suo germano, Stefano, dal baluginio flautante, sedotto dalle argentee canne della voce magniloquente dell’organo che “suona per me e per te nell’immensità del cielo” ieratico delle sacre stanze del divino.
Ed eccoci infine insieme innanzi alla balza sinuosa su sui s’erge possente la storica pieve, maestosa, imponente, con i Cavalieri venuti da ogni dove che affollano il selciato del sagrato. In attesa. Come un tempo, nella mistica solitudine palatina, in preghiera per consacrare cappa e spada ai destini del proprio signore e del bene del mondo.
…che il 26° Raduno dell’Anioc abbia inizio!
Se andiamo ancor prima, però, nel cuore affannoso di una notte insonne, è tempo di mettere e rimettere, di cucire e ricucire, di mischiare e rimescolare le carte, fino all’ultimo. E non certo per vana alterigia, ma solo per sentirsi “fratelli” di una famiglia votata alle stelle. Lassù, nella quiete del silenzio, ove ogni affanno tace e il fasto mondano è solo il pulviscolo inerte della scia d’una effimera cometa, riposa chi anzitempo ci ha lasciato versando il triste tributo dei suoi anni caduti rendendoci eredi di un sogno: un mondo migliore!