Perché il «Socialismo»? E perché, «Nazionale»…

Riceviamo e pubblichiamo:



Se indipendentemente da ogni attrazione o seduzione ideologica,
predisposizione o inclinazione politica, mi si chiedesse - a
freddo - cosa mi suscita o fa istintivamente provare o risentire
la parola «Socialismo», sarei portato semplicemente a rispondere
che quest’ultima, per associazione d’idee, mi lascia
immediatamente e contemporaneamente richiamare alla mente ed
inevitabilmente rinverdire nello spirito, sia il concetto ideale
di «Polis» greca e di «Civitas» latina che le grandi linee o la
sintesi accertata della loro configurazione pratica. Vale a
dire: il modo di essere, di esistere e di agire, naturale ed
umano, che era insito a quelle due società ed, allo stesso
tempo, il loro tangibile ordinamento politico, economico,
sociale, culturale e militare, così come la storia ce lo ha
tramandato. Nei due casi: il modello e la struttura di società
particolari che - prendendo ispirazione dall’ordine cosmico -
tendevano ad identificarsi con le proporzioni geometriche che
caratterizzavano quell’assetto, nonché ad esprimersi e ad agire
in perfetta armonia con i principi ed i valori che, direttamente
o indirettamente, emanavano da quell’equilibrio naturale.


Quelle società - come l’idea di «socialismo» a cui sto facendo
riferimento - possedevano la particolare caratteristica di
essere state immaginate, concepite e realizzate dall’uomo, per
l’uomo, e vivacizzate da esseri umani, in linea di massima,
«equilibrati» e «ragionevoli»: degli esseri, cioè, che - per il
loro bene individuale e collettivo, e nel rispetto delle loro
diverse utilità o convenienze e delle loro differenti e
variegate sensibilità - cercavano invariabilmente e
consapevolmente di coesistere e di cooperare tra di loro,
tentando assennatamente e coscientemente di anteporre o di
privilegiare (autant que faire se peut) il loro interesse
generale, sia all’interno delle loro società che in neutralità,
rapporto, relazione, confronto o scontro con altre società!


Dalla radice latina «soci-», infatti - che permette la
formazione del sostantivo socius, ii (compagno, camerata,
associato, alleato) e da cui emanano, a loro volta, i vocaboli
socialis, e (sociale: cioè, fatto o realizzato per quella
specifica associazione) e sociabilis, e (socievole: cioè, che
può essere unito o equilibrato ed armonioso), nonché il termine
societas, atis (società: cioè, associazione di individui unici,
originali, irripetibili e complementari, aventi scopi o finalità
comuni da raggiungere) - la parola «SOCIALISMO», oltre a
riferirsi ad un fenomeno che mette chiaramente in risalto o in
gioco «un’equilibrata ed armoniosa associazione di esseri
umani», tende letteralmente e simultaneamente a rappresentare,
esprimere e veicolare, un «nomen» (o denominazione), un
«concetto», una «dinamica» ed una «finalità».


1. Il «nomen», naturalmente, è quello che è insito a tutte le
parole con finale «-ismo»: un suffisso derivato dal greco «-ismos»
e dal latino «-ismus» che - come precisa il Dizionario Garzanti
della lingua italiana (XIX edizione, 1980, pag. 909) - «è usato
per la formazione di voci astratte, per lo più di conio moderno
(solo alcune mutuate dal greco), con un vasto ambito semantico:
dottrine, movimenti, tendenze, condizioni, ecc.».


Contrariamente all’opinione più diffusa, però, la parola
«socialismo» non è stata affatto coniata, inventata o escogitata
(oppure, lanciata per la prima volta sul “mercato”) da Robert
Owen (che, a sua volta, sembrò averla addirittura scopiazzata,
tra il 1820 ed 1822, dalla terminologia di un suo abituale
corrispondente, un certo Edward Cowper). Tanto meno, da Pierre
Leroux che avrebbe incominciato ad impiegarla nel 1832. Meno
ancora, da Charles Fourier che l’utilizzerà a partire dal 1833,
Ed ancora meno, da Louis Reybaud che inizierà a diffonderla,
soltanto dopo il 1836.


Come precisa «L’Histoire Mondiale des Socialismes» (AA.VV, sotto
la direzione di Jean Elleinstein, Ed. A. Colin, Parigi, 1984,
pag. 13 e 14), la “paternità” di quello specifico neologismo,
spetterebbe invece - cronologicamente ed ex-equo - a tre
religiosi italiani. In particolare: al monaco Ferdinando
Facchinei (che per primo, nel 1766, in uno dei suoi scritti,
avrebbe fatto uso della parola «socialismo»), allo studioso
Appiano Buonafede (che l’avrebbe ugualmente impiegata,
indipendentemente dal primo, nel 1786) ed al chierico Giacomo
Giuliani (che se ne sarebbe altresì autonomamente servito, nel
1803).


In altre parole, il classico “scherzo da preti”… Soprattutto nei
confronti di chi, invece, ancora oggi, al di la delle più
irrefutabili evidenze o delle più patenti e plateali
constatazioni, continua - imperterrito - ad essere ingenuamente
convinto che la parola «socialismo» abbia, per così dire, una
spiccata «connotazione laica» ed, allo stesso tempo, provenga o
sia direttamente sgorgata dall’analisi sociologica di un Karl
Marx e di un Friedrich Engels, oppure dalle riflessioni
ideologiche e/o dalla prassi politica, economica, sociale e
culturale di un Saint-Simon, di un Sorel, di un Lenin (Vladimir
Iliich Ulianov), di un Trotski (Liev Davídovich Bronstein), di
un Bakunin o di un Mussolini!


2. Il «concetto», invece - diversamente dalla nascita del
neologismo e dall’uso corrente del termine - non è affatto
moderno. Anzi, possiamo senz’altro affermare che è
presumibilmente antico, tanto quanto la storia dell’uomo.


Per riassumere, quindi, diciamo che con molteplici e multiformi
aspetti, profili e lineamenti, nonché con spiegazioni,
decifrazioni o interpretazioni diverse, il concetto di
«socialismo» - quale oggi, noi, purtroppo, per la maggior parte,
non riusciamo più ad intenderlo o a comprenderlo nella sua
effettiva misura e reale dimensione (in quanto, siamo tutt’ora
intellettualmente influenzati e culturalmente forviati, sia dal
riflesso condizionato che emana dall’impropria, restrittiva e
pervertente nozione di «socialismo» imposta al mondo - per più
di un secolo - dalla martellante e capillare propaganda marxista
e marxista-leninista che dall’intenso ed ossessionante
condizionamento ideologico, politico e pratico, in senso
individualista, che continua quotidianamente ad essere imposto,
alle nostre società, dall’ingannevole, castrante ed avvilente
illusione liberista/capitalista/mondialista!) - lo ritroviamo
costantemente presente, nell’immaginario individuale e
collettivo delle nostre società e nella loro prassi quotidiana,
lungo tutto l’arco della nostra storia. In particolare:
dall’epoca della Costituzione (la «Grande Rhètra») di Sparta del
leggendario Licurgo (-IX sec.), a quella della «Legge Licinia» (-IV
sec.) nell’antica Urbs repubblicana; dalle innovazioni sociali
introdotte a Siracusa da Agatocle (-IV sec), a quelle di Manlio
Curio Dentato o di Tiberio Gracco nella Roma del –III e del –II
secolo; dalle tesi di Paolo di Tarso (I sec.), a quelle del
filosofo pitagorico Apollonio Tianeo (I sec.); dagli aneliti
espressi nei suoi scritti da Thomas More (11478-1535), a quelli
di Tommaso Campanella (1568-1639); da quelli di Bernardino
Telesio (1509-1588), a quelli di Gaetano Filangieri (1752-1788);
da quelli di Giuseppe Romagnosi (1761-1835), a quelli di Carlo
Pisacane (1818-1857), ecc. Senza dimenticare, naturalmente, le
intuizioni sociali di un Georg Wilhelm Friedrch Hegel
(1770-11831), né le speranze, aspirazioni o attuazioni dei vari
Claude-Henri de Saint-Simon (1760-1825), Robert Owen
(1771-1858), Charles Fourier (1772-1837), Etienne Cabet
(1788-1865), Philippe Buchez (1796-1865), Auguste Comte
(1798-1857), Thomas Carlyle (1795-1881), Louis Auguste Banqui
(1805-1881), Johann Karl Rodbertus (1805-1875), Louis Blanc
(1811-1882), Adolph Wagner (1835-1917), Pierre Joseph Proudhon
(1809-1865), ecc.


Ebbene, quel «concetto» può essere facilmente compendiato o
sintetizzato in questi termini: libertà, associazione, unità
d’intenti, rispetto reciproco, concordia civile, giustizia
sociale, senso aristotelico della misura.


3. La «dinamica», dal canto suo, è quella che emana, si
sprigiona e/o si sviluppa dal significato e dal senso
dell’oggetto a cui la parola «socialismo» letteralmente si
riferisce: il «sociale».


Dal latino «socialis, e», il «sociale» - quale i nostri antenati
lo intendevano e/o lo concepivano – era, allo stesso tempo, lo
spazio fenomenologico che emergeva dalla «sodalitas» e l’oggetto
e la risultante del «vinculum» che tendeva a scaturire dai mutui
rapporti o dalle reciproche interrelazioni che potevano esistere
o sorgere tra i diversi «socii» di una medesima «societas».


In altre parole, era ciò che gli antichi Greci, senza conoscerne
il vocabolo, assimilavano simultaneamente alla nozioni di
pratica quotidiana e reciproca del senso dell’onore, del dovere
e del sacro (????s), di reciproca solidarietà (??????elian) e di
complementare e mutua amicizia (???ì?????e??????), nel contesto
della medesima « Polis » («città Stato») o della comune «koinonia
polikè» (cioè, la «società civile»).


Inutile, dunque, chiedersi la ragione per la quale, sia i Greci
che i Latini, consideravano tutto ciò che riguardava la «sfera
del sociale» come «l’arte di stare insieme per stare bene» (politikos
bios). E stimavano particolarmente consequenziale che il
«sociale» (quale oggi, noi, dovremmo intenderlo e/o
comprenderlo), fosse semplicemente lo spazio di autocoscienza
collettiva che - individualmente e collettivamente alimentato -
permetteva ad ogni cittadino di essere, di esistere e di
ricevere, senza per altro doversi mai umiliare o genuflettere
nei confronti di nessuno.


Come mai e per quale ragione, il « sociale », oggi, è
contraddittoriamente diventato l’habitat naturale all’interno
del quale, nella speranza di potere essere e/o di potere
esistere, cerchiamo semplicemente di prendere o di arraffare ciò
che possiamo prendere o agguantare (o ciò che ci viene concesso
o permesso di prendere o di carpire) e rifiutiamo egoisticamente
di dare o facciamo finta di non potere accordare (o tendiamo a
resistere con tutti i mezzi a nostra disposizione, per evitare
di concedere) ciò che invece potremmo senz’altro donare o
offrire?


Come mai e per quale ragione, all’interno di una medesima
società, i «ricchi» o i «benestanti» - che con le loro
«agiatezze materiali», potrebbero benissimo essere molto più
«ricchi» di quello che già effettivamente sono, permettendo
semplicemente a qualche «povero» o «indigente» di beneficiare,
di tanto in tanto, della loro evidente o rilevante prosperità –
preferiscono stoltamente separarsi dal «corpo sociale» al quale
appartengono, «nascondendosi» fisicamente agli occhi di chi
potrebbe sollecitare il loro soccorso ed, in certi casi, facendo
perfino finta di essere «poveri», per non dovere in qualche modo
elargire o dispensare al loro prossimo un minimo di doverosa
solidarietà?


Come mai e per quale ragione, i «poveri» o i «bisognosi» delle
nostre società - che con le infinite «necessità» di cui sono
portatori, potrebbero benissimo essere meno «poveri» ed
«indigenti» di quello che già realmente sono, ricevendo
semplicemente da qualche «ricco» quel minimo di aiuto fraterno
che permetterebbe loro di ritornare immediatamente a sorridere -
preferiscono anch’essi separarsi dal «corpo sociale» al quale
appartengono, «nascondendosi» fisicamente agli occhi di chi
potrebbe portare loro un qualunque sollievo, ed, in certi casi,
facendo addirittura finta di non avere nessun problema, per
doversi sentire ulteriormente marginalizzati e/o umiliati da
quella loro già triste ed imbarazzante situazione?


Come mai e per quale ragione, la « politica » - che secondo
Aristotele era «l’interesse generale di una società nei
confronti o nei riguardi di un’altra società» - si è
contraddittoriamente trasformata, nel «mio interesse di parte
contro il tuo, il tuo contro il mio, il nostro contro il loro,
il vostro contro il nostro o contro il loro e così via, tutti
facenti parte della medesima società»?


Come mai e per quale ragione, « l’economia » - che all’origine
era «l’arte di ben gestire o del ben amministrare» ed al
«servizio della società» (gli «uomini d’affari» della Polis e/o
della Civitas, infatti, quando si accingevano a svolgere le loro
attività imprenditoriali, tenevano invariabilmente conto
dell’«interesse economico generale del popolo o della nazione di
cui facevano parte»!) - è contraddittoriamente diventata, da un
lato «l’arte dello sprecare, dello sperperare, del dilapidare
e/o del dissipare», e dall’altro «l’arte di arricchirsi
individualmente, anche a discapito dell’interesse generale della
società»? E come mai e per quale ragione, svolgere una qualunque
attività economica, nel contesto di una qualsiasi società del
nostro tempo, è illogicamente diventata sinonimo di «fare
semplicemente i “nostri affari personali”... ignorando,
contrastando o sopraffacendo l’interesse economico generale del
popolo e/o della nazione di cui facciamo parte?


Come mai e per quale ragione, la «cultura» - che all’epoca dei
Greci e dei Romani era «l’arte di migliorarsi o di raffinarsi,
per valorizzare la propria natura« (kalokagathía) e per «meglio
ingentilire e perfezionare quella degli altri membri della Polis
o della Civitas» (non dimentichiamo, infatti, che la «cultura»
era soprattutto «l’orgoglio di ogni membro di quelle società di
sentirsi, allo stesso tempo, radice e frutto, padre e figlio,
maestro ed alunno delle migliori opere, del miglior sapere e dei
migliori ingegni del loro popolo e della loro nazione») - si è
contraddittoriamente trasformata nello «sterile vanto della
nostra individuale conoscenza, nei confronti del nostro popolo
ignorante»?


Come ebbe a profetizzare Mazzini (« Doveri dell’Uomo »,
Biblioteca Popolare, Napoli, 1860, pag. 22), «a forza
d’esagerare un principio contenuto nel Protestantismo, e ch’oggi
il Protestantismo sente bisogno d’abbandonare - a forza di
dedurre tutte le vostre idee unicamente dall’indipendenza
dell’individuo - voi siete giunti, a che? all’anarchia, cioè
alla oppressione del debole, nel commercio; alla libertà, cioè
alla derisione del debole che non ha mezzi, né tempo, né
istruzione per esercitare i propri diritti, nell’ordinamento
politico; all’egoismo, cioè all’isolamento e alla rovina del
debole che non può aiutarsi da sé, nella morale ».


Ecco, dunque, l’irresistibile «dinamica» che si cela dietro la
parola «socialismo»: quella, cioè, che si sprigiona e dilaga ai
quattro venti dalla semplice constatazione e presa di coscienza
- da parte dell’insieme degli «attori sociali» di una medesima
società - dell’utilità e dell’interesse del vivere unitamente e
congiuntamente, in concordia e cooperazione, per tentare di
meglio ben vivere e di meglio prosperare.


4. La «finalità», in fine, è semplicemente il «ben vivere»! «Ben
vivere» e «prosperare», o quantomeno tentare di «vivere meno
male» e con «meno ingiustizia, mortificazioni e
demoralizzazioni» di quanto oggi siamo costretti a vivere. Il
tutto, naturalmente, in un contesto di libertà, indipendenza,
autodeterminazione e sovranità politica, economica, culturale e
militare.


Contrariamente al «socialismo marxista», infatti, il «socialismo
tout-court» detesta rifiuta e condanna il «pensiero unico» e la
«soluzione totalitaria»; aborrisce e respinge il concetto di
società frazionata o divisa ed inevitabilmente ripartita e
contrapposta in interessi e classi reciprocamente inconciliabili
e sistematicamente ostili e conflittuali; esecra ed avversa - al
di fuori dei settori di pubblico interesse e di comune utilità -
la pianificazione economica ed il capitalismo di Stato; promuove
ed incoraggia l’iniziativa privata e la proprietà privata, nella
misura che queste ultime non entrino in contrasto e/o in
contraddizione con l’interesse generale della società; non nega,
né rifiuta l’egoismo, l’avidità e la bramosia dei singoli
individui, nella misura che quelle «qualità», «difetti» o
semplici «predisposizioni naturali» non servano da astuzia o da
pretesto, sia per lo sfruttamento e/o l’umiliazione dell’uomo
sull’uomo, sia per la sua programmata o prestabilita
depredazione, spoliazione, depauperazione, sia per la sua voluta
o ambita degenerazione, degradazione, demoralizzazione,
desolazione.


Il «socialismo tout-cout», inoltre, all’opposto del «socialismo
marxista», non prende assolutamente per «buone» le idee
economiche che furono teorizzate e divulgate a suo tempo, sia da
Adam Smith (da cui, addirittura, Marx riprendera’ integralmente
la teoria del «valore lavoro»…) che da David Ricardo.


Al contrario, per rimettere drasticamente e definitivamente in
discussione il sistema di produzione capitalista, nonché le
distruzioni, le oppressioni ed i drammi sociali che quest’ultimo
continua invariabilmente a partorire da più di duecento anni -
non solo contesta e rifiuta che i «tre fattori della produzione»
(come concordemente e sorprendentemente ammesso ed accettato,
sia dai «liberisti» che dai «marxisti») continuino ad essere il
«capitale», la «tecnologia» ed il «lavoro umano» ma - esige che
l’uomo, da semplice «oggetto» o semplice «forza lavoro» della
produzione, oppure da informale e contingente «consumatore» di
una produzione che persegue degli scopi che sono completamente
indipendenti dagli effettivi bisogni e dalla reale soddisfazione
della popolazione, deve imperativamente essere considerato, non
solo il «soggetto» di quella produzione e/o di quel consumo ma,
lo «scopo principale» ed il «fine medesimo» dell’economia.


Il «socialismo tout-cout», in fine, sempre in discordanza e
contrapposizione con il «socialismo marxista» - considerando il
«Lavoro» uguale al «Capitale; pretendendo «capacità»,
«competenza» e «responsabilità» da parte di tutti gli attori
sociali; esigendo il ristabilimento di una «Magistratura del
Lavoro» e di una «Giustizia al di sopra delle parti»; favorendo
la «Solidarietà» e la «Gerarchia dei Valori»; caldeggiando
«l'Economia Partecipativa» e la «ripartizione delle
responsabilità e degli utili tra azionisti e prestatori
d’opera»; propugnando «l’Alternativa Corporativa» e
l’avvenimento di una «Società Organica e Differenziata»;
reclamando la «Socializzazione delle imprese», «l'inserimento
delle Categorie produttive nella Direzione del Paese» e
l’istituzione di uno «Stato Nazionale del Lavoro» - oltre ad
agevolare e rilanciare la dinamica politica, economica e sociale
dei diversi Paesi e Popoli-Nazione del mondo, disarma e
neutralizza drasticamente l’aggressione liberista/globalista ed,
allo stesso tempo, smaschera e mette inderogabilmente fuori
gioco la falsa, addomesticata e compiacente opposizione
«internazionalista» o «alter mondialista» fino ad ora gestita
e/o messa in atto dai cosiddetti «No Global», «Anarchici» e «Rifondaroli
vari», il cui solo scopo sembra ormai essere soltanto quello di
vanificare la protesta popolare e di deviare ad hoc
l'antagonismo sociale dei nostri Popoli-Nazione, per condurlo,
impotente e rassegnato, verso le inevitabili «secche» di un
modesto, riduttivo, antiquato ed inefficace, «riformismo
sociale».


Il «socialismo tout-cout», infatti, sempre in antitesi ed
irriducibile antinomia con il «socialismo marxista», non solo
non rifiuta la Patria e l’Identità etnica e culturale dei
diversi Popoli-Nazione del mondo ma - venerando gli Eroi,
esaltando gli Artisti, palpitando per i Poeti e per gli
Scrittori, inclinandosi davanti al Sapere degli Studiosi ed alla
Genialità degli Inventori, onorando la Famiglia e professando la
deferenza ed il rispetto per la Personalità di ognuno e la Fede
di tutti – si dichiara fermamente e risolutamente in favore del
«Diritto dei popoli a disporre di loro stessi, delle loro terre,
delle loro ricchezze e del loro destino» ed è pronto a battersi
- con ogni mezzo e contro chiunque - per la libertà,
l’indipendenza, l’autodeterminazione e la sovranità politica,
economica, culturale e militare dell’insieme dei Popoli-Nazione
del mondo.


Perché, dunque, il «SOCIALISMO»? E perché, «NAZIONALE»?


Semplicemente, per ritornare ad essere, esistere ed agire come
lo fecero, nel loro tempo, e nella loro buona e cattiva sorte, i
nostri antenati!
Alberto B. Mariantoni



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Alberto B. Mariantoni