L’incontro fra il Presidente del Senato Pera e il Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede Cardinale Ratzinger ha un grandissimo significato: indica la strada da seguire, quella cui recentemente abbiamo sviluppato in tre amplissimi artic
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L'Europa senza radici: Pera e Ratzinger si incontrano
di Renato M. Calvanese/ 30/11/2004
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Il presidente del Senato e il prefetto della Congregazione per
la dottrina della fede si incontrano, si piacciono e scrivono un
libro insieme. E' "Senza radici", uscito in tutte le librerie il
23 novembre scorso. Diamoci uno sguardo...
Un laico e un cattolico vanno d’accordo senza saperlo, esprimono
le stesse preoccupazioni sul presente e insieme tremano all’idea
che la profezia del filosofo Oswald Spengler, pronunciata nel
1918, si realizzi: l’occidente corre verso la morte. Le culture
e le civiltà sono come gli organismi viventi:
nascono-crescono-muoiono. Nonostante tutti i tentativi di
scongiurare la fine, i sintomi dell’agonia già si manifestano.
Il laico è Marcello Pera, presidente del Senato italiano e
filosofo. Il cattolico è invece un teologo, il cardinale Joseph
Ratzinger, anche prefetto della congregazione per la dottrina
delle fede. Svolgono alcune lectio magistralis, l’uno in casa
dell’altro, all’università Lateranense il laico, nella Sala del
Capitolo del Senato il cardinale. Si ascoltano, si piacciono, e
così nasce l’idea di un libro intitolato Senza radici (Mondadori,
134 pagine, € 7,70). Sottotitolo Europa, relativismo,
cristianesimo, islam.
Dobbiamo davvero abituarci all’idea di una fine, stile caduta
dell’impero romano? Se non moribonda, dice Pera, l’Europa è
senz’altro malata. Il sintomo di questo male si chiama
“politicamente corretto”, la malattia, “relativismo”.
L’occidente non riesce più a pensare che le sue creature, il
liberalismo, la separazione Stato-Chiesa, lo Stato di diritto,
lo Stato sociale e la democrazia, siano universali. La tesi
relativista dice che l’universalità non esiste, e che affermare
il contrario è da arrogante imperialista. “La fede occidentale
nella validità universale della propria cultura è falsa,
immorale e pericolosa”. Parola di Samuel Huntington, il teorico
dello scontro di civiltà. Non esiste una cultura migliore o
peggiore di un’altra. Le civiltà non possono essere messe in
graduatoria. Sono sistemi non comparabili e dunque è possibile
dire solo che sono diverse. E allora una civiltà che condanna le
persone per apostasia, nasconde il corpo della donna che
condanna a lapidazione se adultera, non è peggiore, si dice, è
solo diverso da noi. Non possiamo capire - continua il
relativista: il vero, il bello, il buono in una cultura sono
tali secondo i criteri con cui li si definisce in quella
cultura. Insomma, tutto è relativo.
A demolire la pretesa universale di noi fanatici, ci si sono
messi in molti: pesi massimi quali Nietzsche e Wittgenstein, e
pesi medi come il desolante decostruzionismo del Derridà morto
da poco. “Il relativismo - dice Pera – anche se si può concedere
molto alle sue premesse (il pluralismo dei valori e delle
interpretazioni), non è sostenibile”. Non è vero che i fatti non
esistono ma ci sono solo le interpretazioni. I fatti esistono e
perdipiù non significano ogni cosa. “Non saranno pietre dure o
mura incrollabili, ma per confutare e confermare una tesi, i
fatti sono un elemento fondamentale e sovente bastevole delle
nostre argomentazioni”. Alla fine neanche il tolemaico più
ostinato poteva negare che Venere ha le fasi. Di fronte agli
occhi del relativista allora, si possono mettere cose come i
fatti delle preferenze – continua il presidente del Senato:
“neppure il relativista più fondamentalista potrà negare che
tutti gli uomini, se lasciati liberi, preferiscono vivere in
condizioni di sicurezza, rispetto, salute, benessere, pace”.
“Anche la religione ormai è diventata relativista”, aggiunge
Pera. Tutte le religioni possono essere egualmente valide,
dicono alcuni teologi. Dunque Gesù Cristo è uno dei tanti
salvatori che ci sono in giro. “Ego sum via, veritas et vita”.
Ricordare queste parole di Cristo, oggi, vuol dire essere
considerati integralisti al pari dei jihadisti. Eppure il
cristiano, per definizione, riposa nella verità della
Rivelazione. Egli dialoga o per comprendere un’altra fede o per
evangelizzare. Eppure dire questo non si può. L’evangelizzazione
è considerata un lavaggio di coscienza, una forma mascherata di
imperialismo. Di fronte a queste accuse il cristiano si ritira,
abbassa la voce. Diventa un cristiano arrendevole. Il
relativismo è questo, un allenamento alla resa. E allora ecco
che si rinuncia alla battaglia per le radici cristiane nel
preambolo del trattato europeo. Si cerca di non urtare la
sensibilità (o asinità), di quei molti che non riconoscono nel
cristianesimo la tradizione che più ha innervato l’intera storia
dell’occidente. A chi chiede loro, perché l’occidente è quello
che è, citano la presa della Bastiglia.
Solo su una cosa l’Europa non sembra avere dubbi: la pace.
Nessun prezzo è troppo alto per la pace. Nessuna strage dei
nostri o di altri. Pace senza se e senza ma. Dialoghiamo,
capiamo. Eppure da capire ogni volta c’è soltanto una cosa:
siamo stati noi, abbiamo iniziato noi. “C’è qui un odio di sé
dell’Occidente – dice Ratzinger – che è strano e che si può
considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente (…)
non ama più se stesso; della sua storia vede ormai solo ciò che
è deprecabile…” I terroristi islamici che dichiarano guerra “ai
crociati e agli ebrei” e che gridano il loro odio per
l’occidente in diretta tv, diventano resistenti, mentre gli
Stati Uniti, nelle parole di Noam Chomsky, diventano “uno Stato
guida del terrorismo”.
Diceva Arnold Toynbee, che il destino di una società dipende
sempre da minoranze creative. Ratzinger si appella ai suoi:
risorgete cristiani! Diventate i medici di questo occidente in
coma. Pera invita ad istituire, insieme, laici devoti e
cattolici, una religione cristiana non confessionale, che
mantenga il principio di separazione tra temporale e spirituale.
Separazione, non cesura. L’atto fondativo di questa nuova
religione è paradossalmente uno scavo archeologico, un
dissotterramento. Il futuro dell’Europa risiede nel suo passato,
nelle sue radici cristiane, non declinate in modo confessionale
ma culturale. Se l’Europa, di fronte al problema
dell’integrazione degli immigrati, non saprà cosa vuole, perché
tutto è bene, tutto è relativo, e il concetto di dignità umana
(concetto di origine cristiana: l’uomo ha dignità in quanto
imago dei, immagine divina) è valido solo per noi, allora
diventerà un continente-arcipelago in cui convivranno modernità
e preistoria. L’appello del laico e del cattolico è di
ricomporre lo scisma che li ha divisi così a lungo, nel
tentativo di formulare degli standard morali con cui affrontare
anche i problemi generati dalle nuove conquiste scientifiche. Si
propone una riflessione che non ostracizzi concetti come buono e
cattivo, meglio e peggio. Una religione civile, insomma, che
ridia forza morale al patto hobbesiano.
La denuncia di Pera e Ratzinger: Europa malata senza voglia di
futuro (IV)
di Jan van Elzen/ 16/06/2004
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Nella sua Lectio magistralis all’Università Lateranense Pera
spiega che dialogo, tolleranza e rispetto non possono farci
chiudere gli occhi. “Siamo tutti convinti cristiani e laici, che
senza cristianesimo non si può spiegare l’Europa”.
[Segue dalla terza parte - Ratzinger/3]
“Se qualcuno - ha detto Pera - rifiuta la reciprocità di questi
principi e ci dichiara una ostilità o la Jihad, allora dobbiamo
prendere atto che è un nostro avversario e diffenderci”. La
sfida all’Occidente, ha avvertito il Presidente del Senato, non
viene da pochi e isolati gruppi di terroristi, accecati dal
fondamentalismo: essi sono, invece, “strumento di una guerra
culturale e armata”. E a chi obietta che i cristiani non possono
a loro volta combattere con le armi, risponde: “Spero
sinceramente che non si debba ma se, come già accade,
l’Occidente fosso costretto a usare la forza, perché
escluderla”.
Della "malattia" dell’Occidente, diagnostica da Ratzinger come
da Pera, fa parte la caduto di rispetto verso il sacro che
appartiene alla propria tradizione: il cristianesimo. Il
porporato concorda con il Presidente del Senato: l’Europa è un
continente minacciato ormai privo del senso del divino.
Un’Europa arrendevole, che perde la sua identità cristiana,
rischia di soccombere alla sfida del terrorismo islamico. Pera
scuota la Chiesa, vittima dei “cattivi maestri” del relativismo
per cui una religione vale l’altra. E indica la salvezza
nell’insegnamento di chi vuole, invece, che i cristiani rialzino
la testa e riprendano a diffondere la loro, unica, verità.
Il vero significato della parola “dialogo” è il punto
fondamentale del discorso dia di Ratzinger che di Pera. “Il
dialogo non serve a niente - spiega il Presidente del Senato -
se uno dei dialoganti dichiara che una tesi vale l’altra”. Parla
della Chiesa colpita dal virus del relativismo, introdotto da
Nietzsche, Wittgenstein, Derrida. E invece, conclude Ratzinger,
riaffermare Dio aiuterà anche l’Europa a parlare alle altre
culture, per le quali “la profanità assoluta che si è andata
formando in Occidente è qualcosa di profondamente estraneo”.
La domanda che si è posta Ratzinger è radicale: "C’è un’identità
dell’Europa che abbia un futuro e per la quale possiamo
impegnarci con tutto noi stessi?". Per Ratzinger, come per Pera,
è stato un grave errore rinunciare a riconoscere nella futura
Costituzione europea le radici cristiane del continente. Il
filosofo laico e il grande custode della fede parlano la stessa
lingua, vedono lo stesso grande pericolo e fanno un discorso
politico oltre che religioso. Ratzinger osserva, che se nella
nostra società attuale "grazie a Dio" chi offende la fede di
Israele, o il Corano viene multato, "laddove invece si tratta di
Cristo e di ciò che è sacro per i cristiani, ecco che allora la
libertà di opinione appare come il bene supremo, limitare il
quale sarebbe un minacciare o addirittura distruggere la
tolleranza e la libertà in generale". Ma la libertà di opinione
deve trovare il suo limite nel rispetto: "C'è qui un odio di sé
dell'Occidente che è strano e che si può considerare solo come
qualcosa di patologico. L'Europa per sopravvivere, ha bisogno di
una nuova, certamente critica e umile, accettazione di se
stessa, se essa vuole davvero sopravvivere".
Pera esorta la Chiesa: dialoghi forte della sua fede e della sua
ragione.
Il testo integrale della Lectio magistralis
su Lo stato dell’Occidente
tenuta dal Presidente del Senato Marcello Pera
il 12 maggio 2004 alla Pontificia Università Lateranense
in occasione dei 150 anni di fondazione
della Facoltà di diritto civile
Prima parte
Quando monsignor Fisichella mi invitò e mi lasciò libero di
svolgere un tema di mio gradimento, presi al volo l’occasione
per scegliere un argomento che da tempo mi preme, mi induce a
riflettere, spesso a scrivere: lo stato dell’Occidente. Ho
allora ripescato le mie riflessioni, ho deciso di abbreviarle,
aggiornarle e sottoporle a voi. Perché proprio queste
riflessioni e non altre, lo dichiaro in anticipo per presentarvi
la cornice entro cui intendo muovermi e consentire a voi una
migliore valutazione critica delle mie opinioni.
I “perché” sono tre. Perché ritengo che l’Occidente soffra di un
grave stato di crisi culturale. Perché ritengo che questa crisi
rischi di toccare, se non la dottrina, la predicazione della
Chiesa cattolica. E perché – siccome, né per laici né per
credenti, c’è Occidente senza cristianesimo – io ritengo che il
cristianesimo possa contribuire in maniera decisiva a curare la
sofferenza dell’Occidente. Questa sofferenza di cui parlo ha un
nome noto, relativismo, e da qui comincerò.
Un sintomo: l’autocensura dell’Occidente
All’inizio del suo celebre saggio “L’etica protestante e lo
spirito del capitalismo”, Max Weber si pose la seguente
questione: “per quale concatenamento di circostanze è avvenuto
che proprio sul suolo occidentale, e qui soltanto, la civiltà si
è espressa con manifestazioni, le quali – almeno secondo quanto
noi amiamo immaginarci – si sono inserite in uno svolgimento,
che ha valore e significato universale?” (M. Weber, “L’etica
protestante e lo spirito del capitalismo”, trad. it. Leonardo,
Roma 1945, p. 1).
Weber parlava in particolare “della più grande forza della
nostra vita moderna: del capitalismo”, ma sono parecchie le
creazioni e le istituzioni dell’Occidente alle quali può essere
applicato il medesimo quesito. Qui non mi occuperò dell’aspetto
storico del quesito. Ciò su cui invece desidero richiamare
l’attenzione è un problema filosofico, culturale, di tipo nuovo
e paradossale.
Si tratta di questo. Mentre tutte le spiegazioni che si sono
succedute hanno mantenuto la genuinità del quesito di Weber,
oggi – esattamente cento anni dopo la sua opera – è lo stesso
quesito ad essere posto in questione. Il pensiero attualmente
prevalente in Occidente a proposito delle creature universali
dell’Occidente medesimo è che nessuna di esse ha valore
universale. Sì che raccomandare le nostre istituzioni al mondo
sarebbe un gesto di arroganza intellettuale. E sì che cercare di
esportare queste istituzioni presso culture e tradizioni diverse
dalla nostra sarebbe un atto di imperialismo. Ognuno può
facilmente convincersi di quanto questa convinzione sia diffusa
riflettendo su un sintomo: quell’autocensura e autorepressione
che si nasconde sotto le vesti di ciò che si chiama solitamente
“linguaggio politicamente corretto”, una sorta di “neo-lingua”
che l’Occidente oggi usa per ammiccare, alludere, insinuare, ma
non per dire o affermare o sostenere.
Si consideri un fenomeno. Tutto si può confrontare e valutare
dentro la cultura dell’Occidente – persino la Coca Cola col
Chianti –, e molto è concesso di confrontare fra particolarità
della cultura occidentale e particolarità di altre culture. Ma
quando si arriva alle culture medesime o a raggruppamenti di
identità superiore – come le civiltà di cui parlava Max Weber
ieri e Samuel Huntington oggi – e queste culture o civiltà si
vogliano mettere in gerarchia o anche solo ordinare sulla scala
delle preferenze “migliore-peggiore”, ecco che scattano
l’autocensura, la proibizione e le manette linguistiche. Con la
conseguenza che, ove si trovi una cultura che non abbia o
decisamente respinga le nostre istituzioni, non ci è consentito
di dire che la nostra cultura è migliore di quella o anche solo
preferibile a quella.
Questa forma di “rieducazione linguistica” a me suona
inaccettabile. La respingo per ragioni intellettuali e la
respingo per ragioni morali (ciò che, alla fin fine, è la
ragione vera per cui si respingono le posizioni intellettuali).
Comincio dalle prime, ma prima di dirne i motivi filosofici
generali, considero un caso concreto.
Due paralisi dell’Occidente
Dodici anni fa, nel 1992, uno studioso francese di questioni
islamiche, Olivier Roy, scrisse un libro intitolato “L’échec de
l’Islam politique” (Editions du Seuil, Paris 1992). La sua tesi,
detta con le sue parole, era che “l’Islam politico non resiste
alla prova del potere… L’islamismo si è trasformato in un
neofondamentalismo che si cura soltanto di ristabilire il
diritto islamico, la sharia, senza inventare nuove forme
politiche” (p. 9). La prova di questa tesi Roy la trovava in una
lunga serie di assenze o mancate risposte: l’Islam, a suo dire,
non ha prodotto nessun modello politico proprio; nessun sistema
economico particolare diverso da quelli noti; nessuna
istituzione pubblica che funzioni in modo autonomo; nessuno
spazio libero fra la famiglia e lo Stato; nessun riconoscimento
paritario della donna; nessuna comunità sovranazionale diversa
da quella religiosa; eccetera. Insomma, uno scacco. Scriveva
Roy: anziché aprirsi a sbocchi nuovi, “la parentesi islamista ha
chiuso una porta, quella della rivoluzione e dello stato
islamico” (ivi, p.11). È vera o falsa questa tesi di Olivier
Roy, e di molti altri che in Occidente pensano alla stessa
maniera? E, se è vera, si può allora dire oggi che il modello
occidentale è migliore di quello islamico, come ieri si diceva
che la democrazia occidentale è migliore del comunismo?
La risposta alla prima domanda dipende soltanto da ricerche e
analisi empiriche. La risposta alla seconda domanda non dipende
invece unicamente da analisi, perché manifestamente esprime una
valutazione (“migliore”). In proposito, una distinzione
preliminare è fondamentale.
Si tratta della distinzione tra giudizio e decisione, cioè della
distinzione tra affermare una tesi e assumere un atteggiamento.
Le due questioni sono relate, ma, da sé sole, non sono relate
dalla logica deduttiva. In particolare, affermare la tesi che il
modello delle istituzioni democratiche e dei diritti
dell’Occidente è migliore del modello dell’Islam non implica
assumere alcun corso di azione particolare. Si può dire che
l’Occidente è migliore dell’Islam e tollerare l’Islam,
rispettare l’Islam, dialogare con l’Islam, disinteressarsi
dell’Islam, oppure ostacolare l’Islam, confliggere con l’Islam,
e così via, secondo la gamma degli atteggiamenti possibili. Con
un errore madornale, che però rivela il suo stato d’animo, la
cultura dominante in Occidente invece pensa il contrario. Pensa
che un “deve” discenda da un “è”, per cui, se si sostiene che
l’Occidente è migliore dell’Islam – oppure, per scendere nel
concreto, che la democrazia è migliore della teocrazia, una
costituzione liberale migliore della sharia, una decisione
parlamentare migliore di una sura, una organizzazione
internazionale migliore della humma, una sentenza di un
tribunale indipendente migliore di una fatwa, eccetera –, allora
ci si deve scontrare con l’Islam. Un errore logico, appunto, che
si aggiunge all’altro, quello di ritenere che le nostre
istituzioni non abbiano diritto a essere considerate migliori di
altre.
La conseguenza di questi due errori è che oggi l’Occidente è
paralizzato due volte. È paralizzato perché non ritiene che ci
siano buone ragioni per dire che esso è migliore dell’Islam. Ed
è paralizzato perché ritiene che, se queste ragioni ci fossero,
allora dovrebbe combattere l’Islam.
Personalmente, nego queste posizioni. Nego che non vi siano
ragioni valide per giudicare se certe istituzioni siano migliori
di altre. E nego che da un tale giudizio nasca necessariamente
uno scontro. Non nego però che se, ad una profferta di confronto
si risponde con uno scontro, lo scontro non debba essere
accettato. Affermo piuttosto il contrario. Sostengo con
convinzione i principi del dialogo, della tolleranza, del
rispetto, ma sostengo anche che, se qualcuno rifiuta la
reciprocità di questi principi e ci dichiara una ostilità o la
jihad, allora dobbiamo prendere atto che è un nostro avversario
e difenderci. In sostanza, rifiuto l’autocensura dell’Occidente.
Spiego perché.
Il relativismo dei contestualisti
L’idea secondo cui non vi sarebbero buone ragioni per giudicare
culture o civiltà è notoriamente l’idea del relativismo. Essa
oggi prende vari nomi: “pensiero post-illuministico”, “pensiero
post-moderno”, “pensiero debole”, “pensiero senza fondamenti”,
“pensiero senza verità”, “decostruttivismo”, eccetera. Il
marketing è vario, ma il target è sempre lo stesso: si tratta di
far proseliti all’idea che non esistono prove o argomenti solidi
per stabilire che qualcosa è migliore, o vale, più di
qualcos’altro.
Il relativismo parte da un dato incontestabile: la pluralità dei
valori, e da una posizione anch’essa difficilmente contestabile:
la non compossibilità di tutti i valori, nel senso che esiste
sempre una circostanza in cui perseguire un valore (poniamo
l’amicizia) è incompatibile con il perseguirne un altro (poniamo
la giustizia. Si pensi al caso, da seminario di filosofia
morale, in cui un amico abbia commesso un reato sotto i nostri
occhi: si deve violare l’amicizia e denunciarlo o mantenere
l’amicizia ed essere complici?). Ma da queste premesse il
relativismo fa discendere la conseguenza disastrosa che gli
insiemi di valori, come le culture e le civiltà, non possono
essere giudicati l’uno a fronte dell’altro.
Le strade percorse per arrivare a questa conseguenza sono
soprattutto due.
La prima strada è quella imboccata dalla filosofia del
Wittgenstein delle “Ricerche filosofiche” con la sua tesi che
ogni “universo linguistico”, quale è quello delle culture o
delle civiltà, ha le proprie regole di costruzione,
significazione e decisione. L’argomento a favore di questa tesi
è che i contenuti non possono essere separati dai criteri con
cui li si giudica. Il vero, il bello, il buono in una cultura
sono tali secondo i criteri con cui li si definisce in quella
cultura. I criteri sono sempre infra-, mai inter-culturali; essi
sono contestuali. Per criticare questa tesi, mi limito ad
osservare che per giudicare se una cultura A sia migliore di una
cultura B non occorre un meta-criterio comune ad A e B; è
sufficiente che i membri di A e di B desiderino impegnarsi in un
dialogo e sottoporsi alle critiche reciproche. Durante o alla
fine del dialogo, un interlocutore si troverà in difficoltà con
l’altro e a quel punto la tesi dell’altro sarà la posizione
migliore. E migliore nell’unico significato che è concesso ai
mortali di conoscere: migliore perché resiste alle critiche.
All’obiezione: “ciò che tu ci stai proponendo è la vecchia
tecnica dell’elenchos, o della confutazione, di Gorgia, Socrate,
Platone e Aristotele, e dunque un criterio buono solo dentro una
cultura, quella occidentale”, si può replicare in tanti modi.
Alla fine, con la “prova del nove”. Se i membri della cultura B
mostrano liberamente di preferire la cultura A e non viceversa –
se, ad esempio, i flussi migratori vanno dai paesi dell’Islam
all’Occidente e non viceversa –, allora c’è ragione di credere
che A sia migliore di B. E all’ulteriore obiezione: “ma questo è
falso, perché la conversione di B ad A può essere frutto di
indottrinamento, di propaganda, di un abbaglio”, si può
rispondere: “Se tu, che sei un relativista contestualista
appartenente alla cultura A, parli di abbaglio, ti contraddici,
perché, per riconoscere un abbaglio operante nella cultura B,
dovresti avere un criterio di abbaglio comune ad A e B che
consentisse di distinguere il reale dall’apparente in entrambe”.
Ma se c’è un criterio comune a due culture, allora il
relativismo cade. Volendo relativizzare tutto, il relativismo ha
così tanto appetito che è autofagico.
[Segue quinta parte - Pera/2]
Indice degli articoli relativi agli interventi di Caffarra, Pera
e Ratzinger su Korazym.org
La denuncia di Pera e Ratzinger: Europa malata senza voglia di
futuro (V)
di Jan van Elzen/ 17/06/2004
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Nella sua Lectio magistralis all’Università Lateranense Pera
spiega che dialogo, tolleranza e rispetto non possono farci
chiudere gli occhi. “Siamo tutti convinti cristiani e laici, che
senza cristianesimo non si può spiegare l’Europa”.
[Segue dalla quarta parte - Pera/1]
Il testo integrale della Lectio magistralis
su Lo stato dell’Occidente
tenuta dal Presidente del Senato Marcello Pera
il 12 maggio 2004 alla Pontificia Università Lateranense
in occasione dei 150 anni di fondazione
della Facoltà di diritto civile
Seconda parte
Il relativismo dei decostruttivisti
La stessa autofagia mina l’altra strada percorsa dal
relativismo, quella della decostruzione, il cui capostipite
riconosciuto è Nietzsche. Il filosofo Jacques Derrida, una delle
voci più ascoltate dell’Occidente, ne è oggi un maestro
riconosciuto. Con molta maestria, egli ha applicato la
decostruzione ad una serie di concetti portanti dell’Occidente
per mostrare che essi non resistono alla prova della loro
pretesa universalità. Ad esempio, Derrida ha decostruito
l’ospitalità, per mostrare che essa è una forma di imposizione;
ha decostruito la democrazia, per concludere che essa è un
esercizio di forza; ha decostruito lo Stato, per mostrare che
esso in quanto tale è una canaglia (cfr. “Stati canaglia”, trad.
it. Cortina, Milano 2003). Alla fine, Derrida si è cimentato
nell’esercizio rischioso di decostruire anche il concetto di
terrorismo.
Ma anche qui il risultato è contraddittorio, e lo stesso Derrida
ne ha fatto le spese. Messo di fronte al terrorismo dell’11
settembre, prima comincia a decostruirlo (“le 11 septembre,
September eleventh, 11 settembre: alla fine, non si sa
esattamente cosa diciamo o cosa chiamiamo”), poi, come tanti
oggi fanno, si appella all’Onu, chiedendo che esso “disponga di
una forza d’intervento sufficiente e non dipenda più, per
mettere in opera le sue decisioni, da Statinazione ricchi e
potenti, realmente o virtualmente egemonici, in grado di piegare
il diritto a loro vantaggio o ai loro interessi” (“Filosofia del
terrore”, a cura di G. Barradori, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 94
e p.123). Un’opinione politica forse corretta, ma – mi chiedo –
come è possibile appellarsi all’Onu, dunque un’istituzione
democratica, dopo che si è decostruito il diritto, la giustizia,
la democrazia? Derrida si rende conto di questa contraddizione e
risponde: “continuo a credere che è la fede nella possibilità di
questa cosa impossibile… a dover determinare tutte le nostre
decisioni” (ivi, pp.123-124). Dice proprio così: la fede. Né più
né meno la risposta che un povero e tanto bistrattato e
decostruito filosofo illuminista, messo alle strette, avrebbe
dato.
Concludo sul punto. Il relativismo, anche se si può concedere
molto alle sue premesse, non è sostenibile. Ha di contro i
fatti. Contro il contestualismo, non nego la relazione (un
tipico rinforzo reciproco) critericontenuti. Nego le celebri
tesi di P. Feyerabend: “ogni teoria possiede la sua esperienza”,
o di T. Kuhn: “i sostenitori di paradigmi opposti praticano i
loro affari in mondi differenti”. Contro il decostruttivismo,
non nego che i fatti non esistano senza interpretazioni. Nego la
tesi di Nietzsche: “i fatti non ci sono, bensì solo
interpretazioni” (F. Nietzsche, “Frammenti postumi”, in Opere,
Adelphi, Milano 1964, p. 299); o la tesi di Derrida: “non c’è
fuori-testo” (J. Derrida, “Della grammatologia”, Jaca Book,
Milano 1969, p. 182).
Li si tiri e titilli come ci pare, ma i fatti restano un banco
di prova ineludibile. Contro il relativismo nella scienza si
possono far valere i fatti degli esperimenti: alla fine, neppure
il tolemaico più ostinato poteva negare che Venere ha le fasi.
Contro il relativismo delle culture, si possono opporre i fatti
delle aspettative: alla fine, neanche Derrida nega che, per far
fronte al terrorismo, sia auspicabile una decisione di organismi
internazionali. E contro il relativismo delle civiltà, si
possono opporre i fatti delle preferenze: alla fine, neanche il
relativista multiculturalista più spinto nega che tutti gli
uomini, se lasciati liberi, preferiscono vivere in condizioni di
sicurezza, tolleranza, rispetto, salute, benessere, pace.
Resta la fede, alla quale infine si appella anche Derrida. E se
anche la fede fosse relativa? Questo è l’altro tema del mio
discorso a cui ora mi rivolgo.
Il relativismo della fede cristiana
Ha scritto di recente il Cardinale Joseph Ratzinger che “il
relativismo in certo qual modo è diventato la vera e propria
religione dell’uomo moderno” (“Fede, verità, tolleranza”, trad.
it. Cantagalli, Siena 2003, p.87), e che esso è “il problema più
grande della nostra epoca” (ivi, p.75). Poi si è posto una serie
di domande: “la forza che ha trasformato il cristianesimo in una
religione mondiale è consistita nella sua sintesi fra ragione,
fede e vita… perché questa sintesi non convince più oggi? Perché
la razionalità e il cristianesimo sono, al contrario,
considerati oggi come contraddittori e addirittura
reciprocamente escludentesi? Che cosa è cambiato nella prima e
che cosa nel secondo?” (ivi, p.184).
Nella prima, la razionalità, – credo di poter rispondere – è
cambiata la fede nei fondamenti, nelle prove, nelle buone
ragioni. Nel secondo, il cristianesimo, – mi azzardo a dire – è
cambiata la fede nella Rivelazione. Da tempo il relativismo è
penetrato anche nella teologia cristiana, ne ha conquistato una
parte, e da lì, lentamente, sotterraneamente, si è diffuso fra i
credenti, in particolare nel clero, dove, se non vedo male, ha
agìto, forse non tanto sulla fede, quanto sulla difesa della
fede.
All’inizio, sta il pluralismo. Il teologo Paul Knitter ha posto
la questione in questi termini: “Il presupposto fondamentale del
pluralismo unitivo è che tutte le religioni sono o possono
essere ugualmente valide. Ciò significa che i loro fondatori, i
personaggi religiosi che stanno dietro ad esse, sono o possono
essere ugualmente validi. Ma ciò potrebbe dischiudere la
possibilità che Gesù Cristo sia ‘uno tra i tanti’ nel mondo dei
salvatori e dei liberatori. E il cristiano non può semplicemente
riconoscere una cosa del genere, o lo può?” (P. Knitter, “Nessun
altro nome?”, trad. it. Queriniana, Brescia 1991, p. 44).
Incredibile a dirsi, per Knitter, lo può. È così per lui, come
per John Hick e altri teologi, occorre ripensare la cristologia
tradizionale. “Ego sum via, veritas et vita”; “extra Verbum
nulla salus”, “Gesù è l’unigenito Figlio di Dio”: “queste e
altre affermazioni del Vangelo, secondo questi teologi
relativisti, dovrebbero essere rivedute o intese diversamente.
Come? Ecco un esempio tratto dal medesimo Knitter. Quando il
cristiano dice “Gesù è l’unico amore”, ciò va inteso – egli
scrive – nel senso “che un marito usa nei confronti di sua
moglie (o viceversa): ‘sei la donna più bella del mondo, sei
l’unica donna per mÈ” (op. cit. pp.155-56). Insomma, dire:
“Gesù, ti amo” sarebbe né più né meno come dire: “Cara, ti
voglio bene”.
Ma perché il povero cristiano dovrebbe convertirsi a questa
“neo-lingua” politicamente, o teologicamente, corretta? La
ragione – come ha scritto ancora il cardinale Ratzinger – sta
nel fatto che “il ritenere che vi sia realmente una verità, una
verità vincolante e valida nella storia stessa, nella figura di
Gesù Cristo e della fede della Chiesa, viene qualificato come
fondamentalismo” (op. cit., p.124). E poiché il fondamentalismo
è oggi un nuovo peccato capitale, meglio votarsi al relativismo,
tanto più che – ha scritto ancora il Cardinale Ratzinger – “il
relativismo appare come il fondamento della democrazia” (p.121).
Il cardinale Ratzinger nega valore a questa tesi e anch’io trovo
che sia contraddittoria, falsa, e controproducente per il
cristiano. Contraddittoria: se, con il relativismo, si sostiene
che non esistono fondamenti, allora neppure il relativismo può
essere il fondamento della democrazia. Falsa: la democrazia si
basa sui valori della persona, della dignità, dell’uguaglianza,
del rispetto; togliete valore a questi valori e avrete tolto la
democrazia. E controproducente: se, relativisticamente, una
verità vale l’altra, a che scopo il dialogo? E se, nella fede,
non esiste la verità, come ci si può salvare? La mia risposta è:
se non esiste la verità, allora il credente non si può salvare.
Per il credente, Cristo è Rivelazione, è il Verbo che si è fatto
persona. E questo Diopersona è un fatto (il “fatto cristiano”,
come lo ha chiamato monsignor Angelo Scola; cfr. “Cristianesimo
e religioni nel futuro dell’Europa”, in L’identità dell’Europa e
le sue radici, Edizioni del Senato, Rubbettino, Soveria Mannelli
2002, p. 39). O lo neghi, questo fatto cristiano, e allora
affermi il relativismo religioso, oppure lo ammetti e allora ti
prepari alle conseguenze.
[Segue sesta e ultima parte - Pera/3]
Indice degli articoli relativi agli interventi di Caffarra, Pera
e Ratzinger su Korazym.org
Introduzione
La denuncia di Pera e Ratzinger: Europa malata senza voglia di
futuro (VI)
di Jan van Elzen/ 19/06/2004
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Nella sua Lectio magistralis all’Università Lateranense Pera
spiega che dialogo, tolleranza e rispetto non possono farci
chiudere gli occhi. “Siamo tutti convinti cristiani e laici, che
senza cristianesimo non si può spiegare l’Europa”.
[Segue dalla quinta parte - Pera/2]
Il testo integrale della Lectio magistralis
su Lo stato dell’Occidente
tenuta dal Presidente del Senato Marcello Pera
il 12 maggio 2004 alla Pontificia Università Lateranense
in occasione dei 150 anni di fondazione
della Facoltà di diritto civile
Terza parte
Il cristianesimo, il dialogo e l’Islam
Ma a quali conseguenze porta il fatto cristiano? Qui passo dalla
critica teorica al relativismo alla critica morale. È noto che,
in teologia, l’esclusivismo oggi è caduto in disuso, e
all’inclusivismo che gli è succeduto si è associato il dialogo
su cui un’enfasi particolare pose il Concilio Vaticano II. Ma
sul dialogo occorre porsi qualche domanda. Due, in particolare:
dialogo per che cosa? dialogo su che cosa?
Cominciamo dalla prima domanda. Una prima risposta è: dialogo
per la comprensione reciproca dei credenti nelle varie fedi.
Questa risposta, che mostra il desiderio della Chiesa di parlare
ai moderni, non solleva particolari problemi, ma non basta. Se
non si vuole rinunciare alla missione della Chiesa, occorre
aggiungere: dialogo per l’evangelizzazione. Ma che rapporto c’è
fra l’una e l’altra finalità, fra la comprensione e
l’evangelizzazione? Francamente, nelle risposte a queste domande
avverto il disagio di un’ambiguità. Nella “Redemptoris missio”
(n. 55) si dice che “il dialogo interreligioso fa parte della
missione evangelizzatrice della Chiesa”, ma “non dispensa
dall’evangelizzazione”. Ma se “fa parte” e “non dispensa”, cioè
se fa parte indispensabile, allora il dialogo non è un elemento,
ma uno strumento dell’evangelizzazione. Perché allora tanta
reticenza ad usare la parola “strumento”? Inclino a pensare che
la risposta risieda in un timore: il timore – alimentato dal
relativismo – che anche per la Chiesa il dialogo come strumento
di evangelizzazione sia percepito come una forma di
imperialismo.
Avverto la stessa ambiguità anche nella risposta alla seconda
domanda: dialogo interreligioso su che cosa? Certo, non sulla
Rivelazione, perché è la Rivelazione è Verità. Si potrebbe dire:
su valori come la comunità, la fratellanza, la tolleranza,
oppure la pace, la dignità, la promozione della persona, che
sono comuni a molte religioni. Ma questi sono valori secolari;
l’evangelizzazione cristiana non predica la secolarità, predica
la trascendenza, la sua unica trascendenza. Ma se questa
trascendenza è unica, come parlare allora di “elementi di verità
e di grazia” (“Ad gentes”, n. 9) anche nelle altre religioni? Di
recente, padre Piero Gheddo ha risposto ad una provocazione di
un sociologo americano (R. Scott Appleby, “Il Papa fra tre
fuochi”, in Global Foreign Policy, marzo-aprile 2004, pp.28-34),
il quale ha addirittura proposto una alleanza tra cristianesimo
e Islam contro l’Occidente. Ha ricordato padre Gheddo: “in
nessun paese islamico i cristiani sono totalmente liberi, come i
musulmani lo sono in Occidente… I musulmani dovrebbero fare un
bell’esame di coscienza sui loro comportamenti collettivi: la
violazione sistematica dei diritti dell’uomo, il terrorismo, le
pratiche oppressive contro le donne e i bambini, la mancanza di
democrazia, il formalismo religioso e sociale che schiaccia la
persona” (ivi, pp. 38 e 40).
È così, se si vuole dire ciò che si vede. Mentre noi consentiamo
che accanto alle chiese delle nostre parrocchie fioriscano
moschee, nella stragrande maggioranza dei paesi musulmani non è
concesso costruire una chiesa. Peggio, mentre i musulmani non
consentono la reciprocità dei nostri principi e valori, noi ci
concediamo la decostruzione relativistica di quegli stessi
princìpi e valori e teorizziamo il dialogo, anche quando – come
scrive ancora padre Gheddo – “occorre riconoscere che il dialogo
come lo concepivano i padri del Concilio ha portato scarsi
frutti”. Forse mi sbaglio o mi preoccupo inutilmente. Ma vedo un
rischio: che il timore delle scelte induca i cristiani a pensare
che, se il cristianesimo comporta oneri gravosi, allora è meglio
affievolire la fede, indulgere al dialogo a qualunque costo o
abbassare la voce piuttosto che rischiare un conflitto. Ma il
cristiano debole, come il pensatore debole, alla fine diventa un
cristiano arrendevole.
Un esempio di questa debolezza mi sembra di poterlo scorgere nel
modo in cui è stata affrontata e si è negativamente risolta la
questione del richiamo alle radici cristiane nel preambolo della
Costituzione dell’Europa unita. Perché è andata così? Non perché
non sia vero che l’Europa non abbia radici cristiane. Tutto il
contrario. È vero che la maggior parte delle nostre conquiste
derivano, positivamente o criticamente, da lì, dal messaggio del
Dio che si è fatto uomo. È vero che, senza questo messaggio, che
ha trasformato gli individui in persone, essi non avrebbero
dignità. È vero che i nostri valori, diritti e doveri di
uguaglianza, tolleranza, rispetto, solidarietà, compassione,
nascono da quel sacrificio di Dio. È vero che il nostro
atteggiamento verso gli altri – di qualunque condizione o ceto o
aspetto o cultura essi siano – dipende dalla rivoluzione
cristiana. È vero che le nostre stesse democrazie ne sono
informate, compreso quella preziosa laicità delle istituzioni
che distingue ciò che è di Dio da ciò che è di Cesare, ciò che è
dello Stato da ciò che è dell’individuo. E così via.
E allora, perché è andata così? Perché lo stesso appello
insistente del Papa non è stato accolto? Perché i popoli
cristiani dell’Europa non si sono mobilitati per innalzare la
loro bandiera, mentre a milioni si sono messi in marcia per la
pace e il dialogo anche con coloro che attaccano espressamente i
valori fondanti dell’Occidente? La mia risposta è: perché –
nell’era del relativismo trionfante – il vero non esiste più, la
missione del vero è considerata fondamentalismo, e la stessa
affermazione del vero fa paura o solleva timori. Forse si sta
avverando la profezia negativa della Veritatis splendor (n.101),
l’“alleanza fra democrazia e relativismo etico”.
Il relativismo – e questa è la vera ragione morale della mia
critica ad esso – affievolisce le nostre difese culturali e ci
prepara o rende inclini alla resa. Perché ci fa credere che non
c’è niente per cui valga combattere e rischiare. Perché non ci
dà più argomenti o ce ne dà di sbagliati persino quando altri
volesse toglierci il Crocifisso dalle scuole. O perché, mentre
vuol farci credere di essere alla base dello Stato laico,
liberale e democratico, alla fine, messo alle strette, si
converte in quel dogmatismo laicista di Stato che vieta alle
ragazze di fede islamica di indossare lo hijab a scuola.
Lo sbadiglio dell’Occidente
Sono alla conclusione. Mi si potrà chiedere: ma perché
combattere e rischiare? C’è forse una guerra? La mia risposta è:
dall’Afghanistan al Kashmir alla Cecenia alle Filippine
all’Arabia Saudita al Sudan alla Bosnia al Kosovo alla Palestina
alla Turchia all’Egitto all’Algeria al Marocco, e altrove, in
gran parte del mondo islamico e arabo gruppi consistenti di
fondamentalisti, radicali, estremisti – Talebani, al Qaeda,
Hezbollah, Hamas, Fratelli musulmani, Jihad islamica, Gruppo
armato islamico, e molti altri ancora – hanno dichiarato guerra
all’Occidente, la jihad. Lo hanno detto, scritto, diffuso a
chiare lettere. Perché non prenderne atto?
Si dirà: sono atti di terrorismo da parte di gruppi di fanatici.
Rispondo: temo di no, il terrorismo è lo strumento di una guerra
culturale e armata. Si dirà ancora: non si può a nostra volta
combattere con le armi. Rispondo: spero sinceramente che non si
debba, ma se, come già accade, l’Occidente fosse costretto ad
usare la forza, perché escluderla? Se la forza giusta e di
difesa, lo stesso cristianesimo non ammette forse una forza
giusta e per difesa?
Non mi si fraintenda, per disattenzione o magari
deliberatamente. Non si speculi sotto o dietro le mie parole.
Non sto perorando una dichiarazione di guerra dell’Occidente.
Sto perorando un’altra cosa, che a me sembra anche più
importante: sto perorando la consapevolezza che esiste un
conflitto di cultura e in armi che alcuni – molti, troppi –
hanno dichiarato all’Occidente. Non sto chiedendo il rifiuto del
dialogo. Sto chiedendo un’altra cosa, che è più fondamentale:
sto chiedendo la consapevolezza che il dialogo non serve a
niente se, in anticipo, uno dei dialoganti dichiara che una tesi
vale l’altra. Questa duplice consapevolezza la vedo poco
presente in Occidente, soprattutto in Europa. E non la trovo
diffusa nello stesso cristianesimo europeo, che a me oggi appare
timido, sconcertato, angosciato. C’è una ragione profonda di
questa scarsa consapevolezza, che capisco e rispetto. L’idea
stessa di una guerra di civiltà o di religione fa paura. Accanto
a questa che capisco, c’è una ragione che invece non capisco: si
tratta dell’idea della “colpa dell’Occidente”.
Ora, l’Occidente è costato al mondo colonialismo, imperialismo,
nazionalismo, antisemitismo, nazismo, fascismo, comunismo.
Avendo mangiato i frutti avvelenati dell’albero della
conoscenza, non è un paradiso terrestre. E però non possiamo
fermarci agli errori e anche orrori dell’Occidente. Se si deve
fare un bilancio corretto, occorre mettere i meriti accanto ai
torti, e se si vuole celebrare un processo equo, occorre
contrapporre la difesa all’accusa. “La civiltà occidentale – ha
affermato un penetrante scrittore, Pietro Citati – ha
grandissime colpe, come qualsiasi civiltà umana. Ha violato e
distrutto continenti e religioni. Ma possiede un dono che
nessuna altra civiltà conosce: quello di accogliere… tutte le
tradizioni, tutti i miti, tutte le religioni, tutti o quasi
tutti gli esseri umani” (P. Citati, “L’Occidente senza forza e
l’esercito del terrore”, Repubblica, 31 marzo 2004). E un altro
grande scrittore, Mario Vargas Llosa, ha detto della civiltà
occidentale: “il suo merito più significativo, quello che,
forse, costituisce un ‘unicum’ nell’ampio ventaglio delle
culture mondiali… è stata la capacità di fare autocritica” (M.
Vargas Llosa, “Occidente. L’agonia del paradiso”, La Stampa, 18
aprile 2004).
Fare autocritica, ammettere gli errori, correggerli, punire chi
ha sbagliato, è linguaggio e dovere laico. Riconoscere le colpe
ed espiarle è espressione ed esperienza cristiana. Si può
seguire l’una o l’altra strada, ma non possiamo dimenticarci chi
siamo, chi vogliamo essere, chi dobbiamo essere. “La democrazia
– ha scritto ancora Vargas Llosa – è un evento che provoca
sbadigli nei paesi in cui esiste uno stato di diritto”. Spero
che non sia così. Ma se lo è, allora, io credo, dobbiamo
cominciare a stropicciarci gli occhi e a svegliarci.
[Fine]
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La denuncia di Pera e Ratzinger: Europa malata senza voglia di
futuro (I)
di Jan van Elzen/ 02/06/2004
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Nell'intervento che il card. Joseph Ratzinger ha tenuto al
Chiostro della Minerva su invito del Presidente del Senato, c'è
un accento di angoscia che si accosta al pessimismo manifestato
proprio da Pera un giorno prima all'Università Lateranense.
[Prima parte - Ratzinger/1]
Riportiamo, in sei parti, i testi di due eventi straordinari
nella storia dei rapporti fra Chiesa e Stato nel nostro Paese.
Dopo la Lectio magistralis svolta dal Presidente del Senato
Marcello Pera all’Università Lateranense il 12 maggio in
occasione dei 150 anni di fondazione della Facoltà di diritto
civile, il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della
Fede, il cardinale Joseph Ratzinger, ha tenuto il 13 maggio la
sua Lectio magistralis, ospite della seconda autorità dello
Stato.
Nella sua Lectio magistralis sull’Occidente che fu e - “molto
preoccupata” - su quello che sarà, il cardinale Ratzinger in
Senato non ha usato toni ovattati. Ha descritto in chiare
lettere come vede l'Occidente in preda a un "odio di sé, che è
strano e che si può considerare solo come qualcosa di
patologico". Il cardinale ha parlato di un continente minacciato
dall’espansione dell’Islam: "L’Europa, proprio in questa ora del
suo massimo successo, sembra diventata vuota dall’interno,
paralizzata da una crisi del suo sistema circolatorio che mette
a rischio la sua vita, affidata per così dire a trapianti, che
poi però non possono che eliminare la sua identità". Mentre
l'Occidente tenta lodevolmente di aprirsi alla comprensione dei
valori delle altre culture, dice il card. Ratzinger, "non ama
più se stesso e della sua propria storia vede ormai soltanto ciò
che è deprecabile e distruttivo". Cioè, non appare più in grado
di percepire ciò che "è grande e puro".
Ratzinger, la voce cattolica più autorevole dopo quella del
papa, individua nell’inaridimento delle anime e nella
distruzione della coscienza morale la “vera e propria
catastrofe” che i sistemi comunisti hanno lasciato in eredità al
vecchio continente. Il continente sembra sulla via del congedo,
sottolinea il cardinale: "C’è una strana mancanza di voglia di
futuro. I figli, che sono il futuro, vengono visti come una
minaccia per il presente; essi ci portano via qualcosa della
nostra vita, così si pensa. Essi non vengono sentiti come una
speranza, bensì come un limite del presente". Ma sotto la
minaccia di un Islam che è invece giovane e forte della sua
fede, che invoca la guerra santa (Jihad) e la legge coranica
(Sharia), deve risvegliare la sua anima cristiana.
Nella linea di Giovanni Paolo II, il card. Ratzinger pone la
dignità dell'uomo e il rispetto dei diritti umani come primo e
fondamentale punto di una futura costituzione europea: "Un primo
elemento è l’incondizionatezza con cui la dignità umana e i
diritti umani devono essere presentati come valori che precedono
qualsiasi giurisdizione statale” e qualsiasi decisione politica,
poiché rinviano ultimamente al Creatore.
Il testo integrale della Lectio magistralis
sulle Radici spirituali dell’Europa
tenuta dal cardinale Joseph Ratzinger
Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede
il 13 maggio 2004 nella Sala capitolare del Chiostro della
Minerva
Prima parte
L’Europa. Cos’è essa propriamente? Questa domanda è stata sempre
nuovamente posta, in maniera espressa, dal cardinal Józef Glemp
in uno dei circoli linguistici del Sinodo episcopale
sull’Europa: dove comincia, dove finisce l’Europa? Perché ad
esempio la Siberia non appartiene all’Europa, sebbene essa sia
abitata anche da europei, la cui modalità di pensare e di vivere
è inoltre del tutto europea? E dove si perdono i confini
dell’Europa nel sud della comunità di popoli della Russia? Dove
corre il suo confine nell’Atlantico? Quali isole sono Europa, e
quali invece non lo sono, e perché non lo sono? In questi
incontri divenne perfettamente chiaro che Europa solo in maniera
del tutto secondaria è un concetto geografico: l’Europa non è un
continente nettamente afferrabile in termini geografici, ma è
invece un concetto culturale e storico.
Il sorgere dell’Europa
Questo risulta in modo assai evidente se tentiamo di risalire
alle origini dell’Europa. Chi parla dell’origine dell’Europa,
rinvia solitamente a Erodoto (ca. 484-425 a. C.), il quale
certamente è il primo a conoscere l’Europa come concetto
geografico, e la definisce così: “I Persiani considerano come
cosa di loro proprietà l’Asia e i popoli barbari che vi abitano,
mentre ritengono che l’Europa e il mondo greco siano un paese a
parte”. I confini dell’Europa stessa non vengono addotti, ma è
chiaro che terre che oggi sono il nucleo dell’Europa odierna
giacevano completamente al di fuori del campo visivo dell’antico
storico. Di fatto con la formazione degli Stati ellenistici e
dell’Impero Romano si era formato un continente che divenne la
base della successiva Europa, ma che esibiva tutt’altri confini:
erano le terre tutt’attorno al Mediterraneo, le quali in virtù
dei loro legami culturali, in virtù dei traffici e dei commerci,
in virtù del comune sistema politico formavano le une insieme
alle altre un vero e proprio continente. Solo l’avanzata
trionfale dell’Islam nel VII e all’inizio dell’VIII secolo ha
tracciato un confine attraverso il Mediterraneo, lo ha per così
dire tagliato a metà, cosicché tutto ciò che fino ad allora era
stato un continente si suddivideva adesso oramai in tre
continenti: Asia, Africa, Europa.
In oriente la trasformazione del mondo antico si compì più
lentamente che in occidente: l’Impero Romano con Costantinopoli
come punto centrale resistette laggiù – anche se sempre più
spinto ai margini – fino al XV secolo. Mentre la parte
meridionale del Mediterraneo attorno all’anno 700 è
completamente caduta fuori di quello che fino ad allora era un
continente culturale, si verifica nel medesimo tempo una sempre
più forte estensione verso il nord. Il limes, che sino ad allora
era stato un confine continentale, scompare e si apre verso un
nuovo spazio storico, che ora abbraccia la Gallia, la Germania,
la Britannia come terre-nucleo vere e proprie, e si protende in
maniera crescente verso la Scandinavia. In questo processo di
spostamento dei confini la continuità ideale con il precedente
continente mediterraneo, misurato geograficamente in termini
differenti, venne garantita da una costruzione di teologia della
storia: in collegamento con il libro di Daniele, si considerava
l’Impero Romano rinnovato e trasformato dalla fede cristiana
come l’ultimo e permanente regno della storia del mondo in
generale, e si definiva perciò la compagine di popoli e di Stati
che era in via di formazione come il permanente Sacrum Imperium
Romanum.
Questo processo di una nuova identificazione storica e culturale
è stato compiuto in maniera del tutto consapevole sotto il regno
di Carlo Magno, e qui emerge ora nuovamente anche l’antico nome
di Europa, in un significato mutato: questo vocabolo venne ora
impiegato addirittura come definizione del regno di Carlo Magno,
ed esprimeva al tempo stesso la coscienza della continuità e
della novità con cui la nuova compagine di Stati si presentava
come la forza propriamente carica di futuro. Carica di futuro
proprio perché si concepiva in continuità con la storia del
mondo fino ad allora e ultimamente ancorata in ciò che permane
sempre.
Nell’autocomprensione che andava così formandosi è espressa
parimenti la consapevolezza della definitività, così come al
tempo stesso la consapevolezza di una missione.
È vero che il concetto di Europa è pressoché nuovamente
scomparso dopo la fine del regno carolingio ed è rimasto
solamente conservato nel linguaggio dei dotti; nel linguaggio
popolare esso trapassa solamente all’inizio dell’epoca moderna –
certo in connessione con il pericolo dei Turchi, come modalità
di autoidentificazione –, per imporsi in generale nel XVIII
secolo. Indipendentemente da questa storia del termine, il
costituirsi del regno dei Franchi come l’Impero Romano mai
tramontato e ora rinato significa di fatto il passo decisivo
verso ciò che noi oggi intendiamo quando parliamo di Europa.
Certo non possiamo dimenticare che c’è anche una seconda radice
dell’Europa, di un’Europa non occidentale: l’Impero Romano aveva
in effetti, come già detto, resistito a Bisanzio contro le
tempeste della migrazione dei popoli e dell’invasione islamica.
Bisanzio intendeva se stessa come la vera Roma; qui di fatto
l’Impero non era mai tramontato, ragion per cui si continuava ad
avanzare una rivendicazione nei confronti dell’altra metà,
quella occidentale, dell’Impero. Anche questo Impero Romano
d’Oriente si è esteso ulteriormente verso il nord, fin dentro il
mondo slavo, e si è creato un proprio mondo, greco-romano, che
si differenzia rispetto all’Europa latina dell’occidente in
virtù di una diversa liturgia, una diversa costituzione
ecclesiastica, una diversa scrittura, e in virtù della rinuncia
al latino come comune lingua insegnata.
Certamente ci sono anche sufficienti elementi unificanti, che
possono fare dei due mondi un unico, comune continente: in primo
luogo la comune eredità della Bibbia e della Chiesa antica, la
quale del resto in entrambi i mondi rinvia aldilà di se stessa
verso un’origine che ora giace al di fuori dell’Europa, e cioè
in Palestina; inoltre la stessa comune idea di Impero, la comune
comprensione di fondo della Chiesa e quindi anche la comunanza
delle fondamentali idee del diritto e degli strumenti giuridici;
infine io menzionerei anche il monachesimo, che nei grandi
sommovimenti della storia è rimasto l’essenziale portatore non
solamente della continuità culturale, bensì soprattutto dei
fondamentali valori religiosi e morali, degli orientamenti
ultimi dell’uomo, e in quanto forza pre-politica e
sovra-politica divenne portatore delle sempre nuovamente
necessarie rinascite.
Tra le due Europe, pur in mezzo alla comunanza dell’essenziale
eredità ecclesiale, c’è tuttavia ancora una profonda differenza,
alla cui importanza ha accennato specialmente Endre von Ivanka:
a Bisanzio Impero e Chiesa appaiono quasi identificati l’uno con
l’altro; l’imperatore è capo anche della Chiesa. Egli intende se
stesso come rappresentante di Cristo, e in collegamento con la
figura di Melchisedek, che era al tempo stesso re e sacerdote
(Gen 14,18), porta dal VI secolo il titolo ufficiale di “re e
sacerdote”. Per il fatto che a partire da Costantino
l’imperatore se ne era andato via da Roma, nell’antica capitale
dell’Impero poté svilupparsi la posizione autonoma del vescovo
di Roma come successore di Pietro e pastore supremo della
Chiesa; qui già dall’inizio dell’era costantiniana viene
insegnata una dualità di potestà: imperatore e papa hanno in
effetti potestà separate, nessuno dispone della totalità. Il
papa Gelasio I (492-496) ha formulato la visione dell’occidente
nella sua famosa lettera all’imperatore Anastasio e ancor più
chiaramente nel suo quarto trattato, dove egli di fronte alla
tipologia bizantina di Melchisedek sottolinea che l’unità delle
potestà sta esclusivamente in Cristo: “questi infatti, a causa
della debolezza umana (superbia!), ha separato per i tempi
successivi i due ministeri, affinché nessuno si insuperbisca”
(c. 11). Per le cose della vita eterna gli imperatori cristiani
hanno bisogno dei sacerdoti (pontifices), e questi a loro volta
si attengono, per il corso temporale delle cose, alle
disposizioni imperiali. I sacerdoti devono seguire nelle cose
mondane le leggi dell’imperatore insediato per ordine divino,
mentre questi deve sottomettersi nelle cose divine al sacerdote.
Con ciò è introdotta una separazione e distinzione delle
potestà, la quale divenne di massima importanza per il
successivo sviluppo dell’Europa, e che per così dire ha posto i
fondamenti di ciò che è propriamente tipico dell’occidente.
Poiché da ambo le parti di contro a tali delimitazioni rimase
vivo sempre l’impulso alla totalità, la brama di porre il
proprio potere al di sopra dell’altro, questo principio di
separazione è divenuto anche la sorgente di infinite sofferenze.
Come esso debba essere vissuto correttamente e concretizzato
politicamente e religiosamente rimane un problema fondamentale
anche per l’Europa di oggi e di domani.
[Segue seconda parte - Ratzinger/2]
Indice degli articoli relativi agli interventi di Caffarra, Pera
e Ratzinger su Korazym.org
La denuncia di Pera e Ratzinger: Europa malata senza voglia di
futuro (II)
di Jan van Elzen/ 03/06/2004
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Nell'intervento che il card. Joseph Ratzinger ha tenuto al
Chiostro della Minerva su invito del Presidente del Senato, c'è
un accento di angoscia che si accosta al pessimismo manifestato
proprio da Pera un giorno prima all'Università Lateranense.
[Segue dalla prima parte - Ratzinger/1]
Il testo integrale della Lectio magistralis
sulle Radici spirituali dell’Europa
tenuta dal cardinale Joseph Ratzinger
Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede
il 13 maggio 2004 nella Sala capitolare del Chiostro della
Minerva
Seconda parte
La svolta verso l’epoca moderna
Se in base a quanto sin qui detto possiamo considerare il
sorgere dell’impero carolingio da una parte, e la continuazione
dell’impero romano a Bisanzio e la sua missione verso i popoli
slavi dall’altra parte come la vera e propria nascita del
continente Europa, l’inizio dell’epoca moderna significa per
ambedue le Europe una svolta, un cambiamento radicale, che
concerne sia l’essenza di questo continente, sia i suoi contorni
geografici.
Nel 1453 Costantinopoli venne conquistata dai Turchi. O.
Hiltbrunner commenta questo evento in maniera laconica: “gli
ultimi … dotti emigrarono … verso l’Italia e trasmisero agli
umanisti del Rinascimento la conoscenza dei testi originali
greci; ma l’Oriente sprofondò nell’assenza di cultura”. Questa
affermazione può essere formulata in maniera un po’ troppo
rozza, poiché in effetti anche il regno della dinastia degli
Osman aveva la sua cultura; ma è vero che la cultura
greco-cristiana, europea, di Bisanzio trovò con ciò la sua fine.
Così una delle due ali dell’Europa rischiò in tal modo di
scomparire, ma l’eredità bizantina non era morta: Mosca dichiara
se stessa come la terza Roma, fonda ora un proprio patriarcato
sulla base dell’idea di una seconda translatio imperii e si
presenta dunque come una nuova metamorfosi del Sacrum Imperium –
come una propria forma di Europa, che tuttavia rimase unita con
l’occidente e si orientò sempre più verso di esso, fino a che
Pietro il Grande tentò di farla diventare un paese occidentale.
Questo spostamento verso nord dell’Europa bizantina portò con sé
il fatto che ora anche i confini del continente si misero in
movimento ampiamente verso oriente. La fissazione degli Urali
come frontiera è oltremodo arbitraria, in ogni caso il mondo a
oriente di essi diventò sempre più una specie di sottostruttura
dell’Europa, né Asia né Europa, essenzialmente forgiato dal
soggetto Europa, senza partecipare però esso stesso del suo
carattere di soggetto: oggetto, e non portatore esso stesso
della sua storia. Forse con ciò è definita, tutto sommato,
l’essenza di uno Stato coloniale.
Possiamo dunque, a riguardo dell’Europa bizantina, non
occidentale, all’inizio dell’epoca moderna, parlare di un
duplice evento: da una parte vi è il dissolvimento dell’antica
Bisanzio con la sua continuità storica nei confronti dell’Impero
Romano; dall’altra parte questa seconda Europa ottiene con Mosca
un nuovo centro e amplia i suoi confini verso oriente, per
erigere infine in Siberia una specie di pre-struttura coloniale.
Contemporaneamente possiamo constatare anche in occidente un
duplice processo con notevole significato storico. Una grande
parte del mondo germanico si distacca da Roma; sorge una nuova,
illuminata forma di cristianesimo, cosicché attraverso
l’occidente scorre d’ora in poi una linea di separazione, la
quale forma chiaramente anche un limes culturale, un confine tra
due diverse modalità di pensare e di rapportarsi. Certo c’è
anche all’interno del mondo protestante una frattura, in primo
luogo tra luterani e riformati, ai quali si associano metodisti
e presbiteriani, mentre la chiesa anglicana tenta di formare una
via di mezzo tra cattolici ed evangelici; a ciò si aggiunge poi
anche la differenza tra cristianesimo sotto la forma di una
Chiesa di Stato, che diventa contrassegno dell’Europa, e chiese
libere, che trovano il loro spazio di rifugio nel Nordamerica,
sulla qual cosa dovremo tornare a parlare.
Facciamo attenzione in primo luogo al secondo evento, che
caratterizza essenzialmente la situazione dell’epoca moderna di
quella che un tempo era l’Europa latina: la scoperta
dell’America. All’allargamento verso est dell’Europa in virtù
della progressiva estensione della Russia verso l’Asia
corrisponde la radicale uscita dell’Europa fuori dai suoi
confini geografici, verso il mondo che sta aldilà dell’Oceano,
che ora riceve il nome di America; la suddivisione dell’Europa
in una metà latino-cattolica e una metà germanico-protestante si
trasferisce e si ripercuote su questa parte della terra occupata
dall’Europa. Anche l’America diventa in un primo tempo una
Europa allargata, una colonia, ma essa si crea
contemporaneamente con il sommovimento dell’Europa a opera della
Rivoluzione Francese il suo proprio carattere di soggetto: dal
XIX secolo in poi essa, sebbene forgiata nel profondo dalla sua
nascita europea, sta tuttavia di fronte all’Europa come un
soggetto proprio.
Nel tentativo di conoscere la più profonda, interiore identità
dell’Europa attraverso lo sguardo sulla storia abbiamo adesso
preso in osservazione due fondamentali svolte storiche: come
prima la dissoluzione del vecchio continente mediterraneo ad
opera del continente del Sacrum Imperium, collocato più verso
nord, in cui si forma a partire dall’epoca carolingia la Europa
come mondo occidentale-latino; accanto a questo la continuazione
della vecchia Roma a Bisanzio, con il suo protendersi verso il
mondo slavo. Come secondo passo avevamo osservato la caduta di
Bisanzio e il conseguente spostamento da una parte dell’Europa
verso nord e verso est dell’idea cristiana di impero, e
dall’altra parte l’interna divisione dell’Europa in un mondo
germanico- protestante e un mondo latino-cattolico, e oltre a
ciò la fuoriuscita verso l’America, a cui si trasferisce questa
divisione e che alla fine si costituisce come un soggetto
storico proprio, che sta di fronte all’Europa. Ora noi dobbiamo
porci davanti agli occhi una terza svolta, il cui fanale ben
visibile fu formato dalla Rivoluzione Francese. È vero che il
Sacrum Imperium come realtà politica già a partire dal tardo
Medioevo era concepito in dissolvimento ed era divenuto sempre
più fragile anche come valida e indiscussa interpretazione della
storia, ma soltanto adesso questa cornice spirituale va in
frantumi anche formalmente, questa cornice spirituale senza cui
l’Europa non avrebbe potuto formarsi. Questo è un processo di
portata considerevole, sia dal punto di vista politico, sia da
quello ideale. Dal punto di vista ideale questo significa che la
fondazione sacrale della storia e dell’esistenza statuale viene
rigettata : la storia non si misura più in base a un’idea di Dio
ad essa precedente e che le dà forma; lo Stato viene oramai
considerato in termini puramente secolari, fondato sulla
razionalità e sul volere dei cittadini.
Per la prima volta in assoluto nella storia sorge lo Stato
puramente secolare, che abbandona e mette da parte la garanzia
divina e la normazione divina dell’elemento politico ,
considerandole come una visione mitologica del mondo e dichiara
Dio stesso come affare privato, che non fa parte della vita
pubblica e della comune formazione del volere. Questa viene ora
vista solamente come un affare della ragione, per la quale Dio
non appare chiaramente conoscibile: religione e fede in Dio
appartengono all’ambito del sentimento, non a quello della
ragione. Dio e la sua volontà cessano di essere rilevanti nella
vita pubblica.
In questa maniera sorge, con la fine del XVIII secolo e l’inizio
del XIX, un nuovo tipo di scisma, la cui gravità noi percepiamo
ora sempre più nettamente. Esso non ha in tedesco alcun nome,
poiché qui si è ripercosso più lentamente. Nelle lingue latine
viene delineato come divisione tra cristiani e laici. Questa
lacerazione negli ultimi due secoli è penetrata nelle nazioni
latine come una frattura profonda, mentre il cristianesimo
protestante in un primo tempo ebbe vita facile nel concedere
spazio alle idee liberali e illuministe all’interno di sé, senza
che la cornice di un ampio consenso cristiano di fondo dovesse
in tal modo venir distrutta. L’aspetto di politica realistica
della dissoluzione dell’antica idea di impero consiste in
questo, che ora definitivamente le nazioni, gli Stati che sono
divenute identificabili come tali in virtù della formazione di
ambiti linguistici unitari, appaiono come i veri e unici
portatori della storia, e dunque ottengono un rango che ad essi
in precedenza non spettava così tanto. La drammaticità esplosiva
di questo soggetto storico ora plurale si mostra nel fatto che
le grandi nazioni europee si sapevano depositarie di una
missione universale, che necessariamente doveva portare a
conflitti fra di loro, il cui impatto mortale noi abbiamo
dolorosamente sperimentato nel secolo ora trascorso.
L’universalizzazione della cultura europea e la sua crisi
Infine dobbiamo qui considerare ancora un ulteriore processo,
con cui la storia degli ultimi secoli trapassa chiaramente in un
mondo nuovo. Se la vecchia Europa precedente all’epoca moderna
nelle sue due metà aveva conosciuto essenzialmente solo un
dirimpettaio, con il quale doveva confrontarsi per la vita e per
la morte, ossia il mondo islamico; se la svolta dell’epoca
moderna aveva portato l’allargamento verso l’America e in parti
dell’Asia senza propri grandi soggetti culturali, così ora ha
luogo la fuoriuscita verso i due continenti sinora toccati solo
marginalmente: l’Africa e l’Asia, che adesso parimenti si tentò
di trasformare in succursali dell’Europa, in colonie. Fino a un
certo punto questo è anche riuscito, in quanto adesso anche Asia
e Africa inseguono l’ideale del mondo forgiato dalla tecnica e
del suo benessere, cosicché anche là le antiche tradizioni
religiose entrano in una situazione di crisi e strati di
pensiero puramente secolare dominano sempre più la vita
pubblica.
Ma c’è anche un effetto contrario: la rinascita dell’Islam non è
solo collegata con la nuova ricchezza materiale dei paesi
islamici, bensì è anche alimentata dalla consapevolezza che
l’Islam è in grado di offrire una base spirituale valida per la
vita dei popoli, una base che sembra essere sfuggita di mano
alla vecchia Europa, la quale così, nonostante la sua perdurante
potenza politica ed economica, viene vista sempre più come
condannata al declino e al tramonto.
Anche le grandi tradizioni religiose dell’Asia, soprattutto la
sua componente mistica che trova espressione nel buddismo, si
elevano come potenze spirituali di contro a un’Europa che
rinnega le sue fondamenta religiose e morali. L’ottimismo circa
la vittoria dell’elemento europeo, che Arnold Toynbee poteva
sostenere ancora all’inizio degli anni Sessanta, appare oggi
stranamente superato: “Di 28 culture che noi abbiamo
identificato … 18 sono morte e nove delle dieci rimaste – di
fatto tutte tranne la nostra – mostrano che esse sono già
colpite a morte”. Chi ripeterebbe oggi ancora le stesse parole?
E in generale – cos’è la nostra cultura, che è ancora rimasta?
La cultura europea è forse la civiltà della tecnica e del
commercio diffusa vittoriosamente per il mondo intero? O non è
questa forse piuttosto nata in maniera post-europea dalla fine
delle antiche culture europee? Io vedo qui una sincronia
paradossale: con la vittoria del mondo tecnico-secolare
post-europeo, con l’universalizzazione del suo modello di vita e
della sua maniera di pensare, si collega in tutto il mondo, ma
specialmente nei mondi strettamente non- europei dell’Asia e
dell’Africa, l’impressione che il mondo di valori dell’Europa,
la sua cultura e la sua fede, ciò su cui si basa la sua
identità, sia giunto alla fine e sia propriamente già uscito di
scena; che adesso sia giunta l’ora dei sistemi di valori di
altri mondi, dell’America pre-colombiana, dell’Islam, della
mistica asiatica.
L’Europa, proprio in questa ora del suo massimo successo, sembra
diventata vuota dall’interno, paralizzata in un certo qual senso
da una crisi del suo sistema circolatorio, una crisi che mette a
rischio la sua vita, affidata per così dire a trapianti, che poi
però non possono che eliminare la sua identità. A questo
interiore venir meno delle forze spirituali portanti corrisponde
il fatto che anche etnicamente l’Europa appare sulla via del
congedo.
C’è una strana mancanza di voglia di futuro. I figli, che sono
il futuro, vengono visti come una minaccia per il presente; essi
ci portano via qualcosa della nostra vita, così si pensa. Essi
non vengono sentiti come una speranza, bensì come un limite del
presente. Il confronto con l’Impero Romano al tramonto si
impone: esso funzionava ancora come grande cornice storica, ma
in pratica viveva già di quelli che dovevano dissolverlo, poiché
esso stesso non aveva più alcuna energia vitale.
Con questo siamo giunti ai problemi del presente. Circa il
possibile futuro dell’Europa ci sono due diagnosi contrapposte.
C’è da una parte la tesi di Oswald Spengler, il quale credeva di
poter fissare per le grandi espressioni culturali una specie di
legge naturale: c’è il momento della nascita, la crescita
graduale, la fioritura di una cultura, il suo lento
appesantirsi, l’invecchiamento e la morte. Spengler arricchisce
la sua tesi in modo impressionante, con documentazioni tratte
dalla storia delle culture, in cui si può intravedere questa
legge del decorso naturale. La sua tesi era che l’occidente
sarebbe giunto alla sua epoca finale, che corre inesorabilmente
incontro alla morte di questo continente culturale, nonostante
tutti i tentativi di scongiurarla. Naturalmente l’Europa può
trasmettere i suoi doni a una cultura nuova emergente, come è
già accaduto nei precedenti declini di una cultura, ma in quanto
soggetto essa ha ormai il suo tempo di vita alle sue spalle.
Questa tesi bollata come biologistica ha trovato appassionati
oppositori nel tempo tra le due guerre mondiali specialmente in
ambito cattolico; in maniera impressionante le si è mosso contro
anche Arnold Toynbee, certo con postulati che oggi trovano poco
ascolto. Toynbee mette in luce la differenza tra progresso
materiale-tecnico da una parte, e dall’altra progresso reale,
che egli definisce come spiritualizzazione. Egli ammette che
l’occidente – il mondo occidentale – si trova in una crisi, la
cui causa egli vede nel fatto che dalla religione si è decaduti
al culto della tecnica, della nazione, del militarismo. La crisi
significa per lui, ultimamente: secolarismo.
[Segue terza parte - Ratzinger/3]
La denuncia di Pera e Ratzinger: Europa malata senza voglia di
futuro (III)
di Jan van Elzen/ 15/06/2004
Clicca qui per ingrandire|
Nell'intervento che il card. Joseph Ratzinger ha tenuto al
Chiostro della Minerva su invito del Presidente del Senato, c'è
un accento di angoscia che si accosta al pessimismo manifestato
proprio da Pera un giorno prima all'Università Lateranense.
[Segue dalla seconda parte - Ratzinger/2]
Il testo integrale della Lectio magistralis
sulle Radici spirituali dell’Europa
tenuta dal cardinale Joseph Ratzinger
Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede
il 13 maggio 2004 nella Sala capitolare del Chiostro della
Minerva
Terza parte
Se si conosce la causa della crisi, si può indicare anche la via
della guarigione: deve essere nuovamente introdotto il fattore
religioso, di cui fa parte secondo lui l’eredità religiosa di
tutte le culture, ma specialmente quello “che è rimasto del
cristianesimo occidentale”. Alla visione biologistica si
contrappone qui una visione volontaristica, che punta sulla
forza delle minoranze creative e sulle personalità singole
eccezionali.
La domanda che si pone è: è giusta questa diagnosi? E se sì – è
in nostro potere introdurre nuovamente il momento religioso, in
una sintesi di cristianesimo residuale ed eredità religiosa
dell’umanità? Ultimamente la questione tra Spengler e Toynbee
rimane aperta, perché noi non possiamo vedere nel futuro. Ma
indipendentemente da ciò si impone il compito di interrogarci su
che cosa può garantire il futuro, e su che cosa è in grado di
continuare a far vivere l’interiore identità dell’Europa
attraverso tutte le metamorfosi storiche. O ancora più
semplicemente: che cosa anche oggi e domani promette di donare
la dignità umana e un’esistenza conforme ad essa.
Per trovare una risposta a ciò dobbiamo gettare lo sguardo
ancora una volta dentro il nostro presente e al tempo stesso
tener presenti le sue radici storiche. In precedenza eravamo
rimasti fermi, in effetti, alla Rivoluzione Francese e al XIX
secolo. In questo tempo si sono sviluppati soprattutto due nuovi
modelli europei. Ecco qui allora nelle nazioni latine il modello
laicistico: lo Stato è nettamente distinto dagli organismi
religiosi, che sono attribuiti all’ambito privato. Lo Stato
stesso rifiuta un fondamento religioso e si sa fondato solamente
sulla ragione e sulle sue intuizioni. Di fronte alla fragilità
della ragione questi sistemi si sono rivelati fragili e facili a
cadere vittima delle dittature; essi sopravvivono, propriamente,
solo perché parti della vecchia coscienza morale continuano a
sussistere anche senza i precedenti fondamenti e rendono
possibile un consenso morale di base. Dall’altra parte, nel
mondo germanico, esistono in maniera differenziata i modelli di
Chiesa di Stato del protestantesimo liberale, nei quali una
religione cristiana illuminata, essenzialmente concepita come
morale – anche con forme di culto garantite dallo Stato –
garantisce un consenso morale e un fondamento religioso ampio,
al quale le singole religioni non di Stato devono adeguarsi.
Questo modello in Gran Bretagna, negli Stati scandinavi e in un
primo tempo anche nella Germania dominata dai prussiani ha
garantito per lungo tempo una coesione statuale e sociale. In
Germania, tuttavia, il crollo del cristianesimo di Stato
prussiano ha creato un vuoto, che poi parimenti si offrì come
spazio vuoto per una dittatura. Oggi le chiese di Stato sono
dappertutto cadute vittima del logoramento: da corpi religiosi
che sono derivazioni dello Stato non proviene più alcuna forza
morale, e lo Stato stesso non può creare forza morale, ma la
deve invece presupporre e costruire su di essa.
Tra i due modelli si collocano gli Stati Uniti del Nord America,
che da una parte – formatisi sulla base delle chiese libere –
prendono le mosse da un rigido dogma di separazione, dall’altra
parte, aldilà delle singole denominazioni, vengono plasmati
tuttavia da un consenso di fondo cristianoprotestante non
forgiato in termini confessionali, il quale si collegava con una
particolare coscienza della missione, nei confronti del resto
del mondo, di tipo religioso e così dava al fattore religioso un
significativo peso pubblico, che in quanto forza prepolitica e
sovra-politica poteva essere determinante per la vita politica.
Certo non ci si può nascondere che anche negli Stati Uniti il
dissolvimento dell’eredità cristiana avanza incessantemente,
mentre al tempo stesso il rapido aumento dell’elemento ispanico
e la presenza di tradizioni religiose provenienti da tutto il
mondo cambia il quadro. Forse si deve qui osservare anche che
gli Stati Uniti promuovono ampiamente la protestantizzazione
dell’America Latina e quindi il dissolvimento della Chiesa
cattolica ad opera di forme di chiese libere, per la convinzione
che la Chiesa cattolica non potrebbe garantire un sistema
politico ed economico stabile, in quanto dunque fallirebbe come
educatrice delle nazioni, mentre ci si aspetta che il modello
delle chiese libere renderà possibile un consenso morale e una
formazione democratica della volontà pubblica, simili a quelli
caratteristici degli Stati Uniti. Per complicare ulteriormente
il quadro si deve ammettere che oggi la Chiesa cattolica forma
la più grande comunità religiosa negli Stati Uniti, che essa
nella sua vita di fede sta decisamente dalla parte dell’identità
cattolica, che però i cattolici a riguardo del rapporto tra
Chiesa e politica hanno recepito le tradizioni delle chiese
libere, nel senso che proprio una Chiesa non confusa con lo
Stato garantisce meglio le fondamenta morali del tutto, cosicché
la promozione dell’ideale democratico appare come un dovere
morale profondamente conforme alla fede. In una posizione simile
si può vedere a buon diritto una prosecuzione, adeguata ai
tempi, del modello di papa Gelasio, di cui ho parlato sopra.
Torniamo all’Europa. Ai due modelli di cui parlavo prima se ne è
aggiunto ancora nel XIX secolo un terzo, ossia il socialismo,
che si suddivise presto in due diverse vie, quella totalitaria e
quella democratica. Il socialismo democratico è stato in grado,
a partire dal suo punto di partenza, di inserirsi all’interno
dei due modelli esistenti, come un salutare contrappeso nei
confronti delle posizioni liberali radicali, le ha arricchite e
corrette. Esso si rivelò qui anche come qualcosa che andava al
di là delle confessioni: in Inghilterra esso era il partito dei
cattolici, che non potevano sentirsi a casa loro né nel campo
protestante-conservatore, né in quello liberale. Anche nella
Germania guglielmina il centro cattolico poteva sentirsi più
vicino al socialismo democratico che alle forze conservatrici
rigidamente prussiane e protestanti. In molte cose il socialismo
democratico era ed è vicino alla dottrina sociale cattolica, in
ogni caso esso ha considerevolmente contribuito alla formazione
di una coscienza sociale.
Il modello totalitario, invece, si collegava con una filosofia
della storia rigidamente materialistica e ateistica: la storia
viene compresa deterministicamente come un processo di progresso
che passa attraverso la fase religiosa e quella liberale per
giungere alla società assoluta e definitiva, in cui la religione
come relitto del passato viene superata e il funzionamento delle
condizioni materiali può garantire la felicità di tutti.
L’apparente scientificità nasconde un dogmatismo intollerante:
lo spirito è prodotto della materia; la morale è prodotto delle
circostanze e deve venir definita e praticata a seconda degli
scopi della società; tutto ciò che serve a favorire l’avvento
dello stato finale felice è morale. Qui il capovolgimento dei
valori che avevano costruito l’Europa è completo. Ancor più, qui
si realizza una frattura nei confronti della complessiva
tradizione morale dell’umanità: non ci sono più valori
indipendenti dagli scopi del progresso, tutto può, in un dato
momento, essere permesso e persino necessario, può essere morale
nel senso nuovo del termine. Anche l’uomo può diventare uno
strumento; non conta il singolo, ma unicamente il futuro diventa
la terribile divinità che dispone sopra tutti e sopra tutto.
I sistemi comunisti frattanto sono naufragati innanzitutto per
il loro falso dogmatismo economico. Ma si trascura troppo
volentieri il fatto che essi sono naufragati, più a fondo
ancora, per il loro disprezzo dei diritti umani, per la loro
subordinazione della morale alle esigenze del sistema e alle sue
promesse di futuro. La vera e propria catastrofe che essi hanno
lasciato alle loro spalle non è di natura economica; essa
consiste nell’inaridimento delle anime, nella distruzione della
coscienza morale. Io vedo come un problema essenziale della
nostra ora per l’Europa e per il mondo questo, che non viene mai
contestato il naufragio economico, e perciò i vetero-comunisti
sono diventati senza esitazione liberali in economia; invece la
problematica morale e religiosa, di cui propriamente si
trattava, viene quasi completamente rimossa. Pertanto la
problematica lasciata dietro di sé dal marxismo continua a
esistere anche oggi: il dissolversi delle certezze primordiali
dell’uomo su Dio, su se stessi e sull’universo, la dissoluzione
della coscienza dei valori morali intangibili, è ancora e
proprio adesso nuovamente il nostro problema e può condurre
all’autodistruzione della coscienza europea, che dobbiamo
cominciare a considerare – indipendentemente dalla visione del
tramonto di Spengler – come un reale pericolo.
A che punto siamo oggi?
Così ci troviamo davanti alla questione: come devono andare
avanti le cose? Nei violenti sconvolgimenti del nostro tempo c’è
un’identità dell’Europa, che abbia un futuro e per la quale
possiamo impegnarci con tutto noi stessi? Non sono preparato per
entrare in una discussione dettagliata sulla futura Costituzione
europea. Vorrei soltanto brevemente indicare gli elementi morali
fondanti, che a mio avviso non dovrebbero mancare.
Un primo elemento è l’“incondizionatezza” con cui la dignità
umana e i diritti umani devono essere presentati come valori che
precedono qualsiasi giurisdizione statale. Questi diritti
fondamentali non vengono creati dal legislatore, né conferiti ai
cittadini, “ma piuttosto esistono per diritto proprio, sono da
sempre da rispettare da parte del legislatore, sono a lui
previamente dati come valori di ordine superiore”. Questa
validità della dignità umana previa ad ogni agire politico e ad
ogni decisione politica rinvia ultimamente al Creatore:
solamente Egli può stabilire valori che si fondano sull’essenza
dell’uomo e che sono intangibili. Che ci siano valori che non
sono manipolabili per nessuno è la vera e propria garanzia della
nostra libertà e della grandezza umana; la fede cristiana vede
in ciò il mistero del Creatore e della condizione di immagine di
Dio che egli ha conferito all’uomo.
Ora oggi quasi nessuno negherà direttamente la precedenza della
dignità umana e dei diritti umani fondamentali rispetto a ogni
decisione politica; sono ancora troppo recenti gli orrori del
nazismo e della sua teoria razzista. Ma nell’ambito concreto del
cosiddetto progresso della medicina ci sono minacce molto reali
per questi valori: sia che noi pensiamo alla clonazione, sia che
pensiamo alla conservazione dei feti umani a scopo di ricerca e
di donazione degli organi, sia che pensiamo a tutto quanto
l’ambito della manipolazione genetica – la lenta consunzione
della dignità umana che qui ci minaccia non può venir
misconosciuta da nessuno. A ciò si aggiungono in maniera
crescente i traffici di persone umane, le nuove forme di
schiavitù, l’affare dei traffici di organi umani a scopo di
trapianti. Sempre vengono addotte finalità buone, per
giustificare quello che non è giustificabile. In questi settori
ci sono nella Carta dei diritti fondamentali alcuni punti fermi
di cui rallegrarsi, ma in importanti punti essa rimane troppo
vaga, mentre proprio qui ne va della serietà del principio che è
in gioco.
Riassumiamo: la fissazione per iscritto del valore e della
dignità dell’uomo, di libertà, eguaglianza e solidarietà con le
affermazioni di fondo della democrazia e dello stato di diritto,
implica un’immagine dell’uomo, un’opzione morale e un’idea di
diritto niente affatto ovvie, ma che sono di fatto fondamentali
fattori di identità dell’Europa, che dovrebbero venir garantiti
anche nelle loro conseguenze concrete e che certamente possono
venir difesi solamente se si forma sempre nuovamente una
corrispondente coscienza morale.
Un secondo punto in cui appare l’identità europea è il
matrimonio e la famiglia. Il matrimonio monogamico, come
struttura fondamentale della relazione tra uomo e donna e al
tempo stesso come cellula nella formazione della comunità
statale, è stato forgiato a partire dalla fede biblica. Esso ha
dato all’Europa, a quella occidentale come a quella orientale,
il suo volto particolare e la sua particolare umanità, anche e
proprio perché la forma di fedeltà e di rinuncia qui delineata
dovette sempre nuovamente venir conquistata, con molte fatiche e
sofferenze. L’Europa non sarebbe più Europa, se questa cellula
fondamentale del suo edificio sociale scomparisse o venisse
essenzialmente cambiata. La Carta dei diritti fondamentali parla
di diritto al matrimonio, ma non esprime nessuna specifica
protezione giuridica e morale per esso e nemmeno lo definisce
più precisamente. E tutti sappiamo quanto il matrimonio e la
famiglia siano minacciati – da una parte mediante lo svuotamento
della loro indissolubilità ad opera di forme sempre più facili
di divorzio, dall’altra attraverso un nuovo comportamento che si
va diffondendo sempre di più, la convivenza di uomo e donna
senza la forma giuridica del matrimonio. In vistoso contrasto
con tutto ciò vi è la richiesta di comunione di vita di
omosessuali, che ora paradossalmente richiedono una forma
giuridica, la quale più o meno deve venir equiparata al
matrimonio. Con questa tendenza si esce fuori dal complesso
della storia morale dell’umanità, che nonostante ogni diversità
di forme giuridiche del matrimonio sapeva tuttavia sempre che
questo, secondo la sua essenza, è la particolare comunione di
uomo e donna, che si apre ai figli e così alla famiglia. Qui non
si tratta di discriminazione, bensì della questione di cos’è la
persona umana in quanto uomo e donna e di come l’essere assieme
di uomo e donna può ricevere una forma giuridica. Se da una
parte il loro stare assieme si distacca sempre più da forme
giuridiche, se dall’altra l’unione omosessuale viene vista
sempre più come dello stesso rango del matrimonio, siamo allora
davanti a una dissoluzione dell’immagine dell’uomo, le cui
conseguenze possono solo essere estremamente gravi.
Il mio ultimo punto è la questione religiosa. Non vorrei entrare
qui nelle discussioni complesse degli ultimi anni, ma mettere in
rilievo solo un aspetto fondamentale per tutte le culture: il
rispetto nei confronti di ciò che per l’altro è sacro, e
particolarmente il rispetto per il sacro nel senso più alto, per
Dio, cosa che è lecito supporre di trovare anche in colui che
non è disposto a credere in Dio. Laddove questo rispetto viene
infranto, in una società qualcosa di essenziale va perduto.
Nella nostra società attuale grazie a Dio viene multato chi
disonora la fede di Israele, la sua immagine di Dio, le sue
grandi figure. Viene multato anche chiunque vilipendia il Corano
e le convinzioni di fondo dell’Islam. Laddove invece si tratta
di Cristo e di ciò che è sacro per i cristiani, ecco che allora
la libertà di opinione appare come il bene supremo, limitare il
quale sarebbe un minacciare o addirittura distruggere la
tolleranza e la libertà in generale. La libertà di opinione
trova però il suo limite in questo, che essa non può distruggere
l’onore e la dignità dell’altro; essa non è libertà di mentire o
di distruggere i diritti umani.
C’è qui un odio di sé dell’occidente che è strano e che si può
considerare solo come qualcosa di patologico; l’occidente tenta
sì in maniera lodevole di aprirsi pieno di comprensione a valori
esterni, ma non ama più se stesso; della sua propria storia vede
oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non
è più in grado di percepire ciò che è grande e puro. L’Europa,
per sopravvivere, ha bisogno di una nuova – certamente critica e
umile – accettazione di se stessa, se essa vuole davvero
sopravvivere. La multiculturalità, che viene continuamente e con
passione incoraggiata e favorita, è talvolta soprattutto
abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio, fuga dalle cose
proprie. Ma la multiculturalità non può sussistere senza
costanti in comune, senza punti di orientamento a partire dai
valori propri. Essa sicuramente non può sussistere senza
rispetto di ciò che è sacro. Di essa fa parte l’andare incontro
con rispetto agli elementi sacri dell’altro, ma questo lo
possiamo fare solamente se il sacro, Dio, non è estraneo a noi
stessi. Certo, noi possiamo e dobbiamo imparare da ciò che è
sacro per gli altri, ma proprio davanti agli altri e per gli
altri è nostro dovere nutrire in noi stessi il rispetto davanti
a ciò che è sacro e mostrare il volto di Dio che ci è apparso –
del Dio che ha compassione dei poveri e dei deboli, delle vedove
e degli orfani, dello straniero; del Dio che è talmente umano
che egli stesso è diventato un uomo, un uomo sofferente, che
soffrendo insieme a noi dà al dolore dignità e speranza.
Se non facciamo questo, non solo rinneghiamo l’identità
dell’Europa, bensì veniamo meno anche a un servizio agli altri
che essi hanno diritto di avere. Per le culture del mondo la
profanità assoluta che si è andata formando in occidente è
qualcosa di profondamente estraneo. Esse sono convinte che un
mondo senza Dio non ha futuro. Pertanto proprio la
multiculturalità ci chiama a rientrare nuovamente in noi stessi.
Come andranno le cose in Europa in futuro non lo sappiamo. La
Carta dei diritti fondamentali può essere un primo passo, un
segno che l’Europa cerca nuovamente in maniera cosciente la sua
anima. In questo bisogna dare ragione a Toynbee, che il destino
di una società dipende sempre da minoranze creative. I cristiani
credenti dovrebbero concepire se stessi come una tale minoranza
creativa e contribuire a che l’Europa riacquisti nuovamente il
meglio della sua eredità e sia così a servizio dell’intera
umanità.
[Segue quarta parte - Pera/1]
Indice degli articoli relativi agli interventi di Caffarra, Pera
e Ratzinger su Korazym.org
INTRODUZIONE
opa e i valori portanti della sua identità cristiana
di Jan van Elzen/ 01/06/2004
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Un teologo, un filosofo e un vescovo hanno tenuto lezione su
Chiesa e Occidente, con conseguenze pastorali per la Chiesa.
Vengono incontro - come guide autorevoli - alle speranze nel
futuro delle nuove generazioni. La nostra e quelle a venire ...
Korazym.org vuole contribuire a dare loro forte visibilità.
Recentemente hanno tenuto lezione a Bologna e a Roma, con
altrettanti discorsi di grande rilievo, tra loro convergenti.
Hanno ricordato senza mezzi termini che la nostra Europa è
malata, è colpita da un morbo mortale dello spirito, ha perso il
contatto con la verità e la realtà. E assieme alla diagnosi, con
grande saggezza hanno offerto la loro terapia. Il teologo è il
cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la
Dottrina della Fede. Il filosofo è Marcello Pera, non cattolico
ma deciso fautore dell’incontro tra fede e ragione, con la
politica come seconda vocazione e dal 2001 presidente del Senato
della Repubblica italiana. Il vescovo è il nuovo arcivescovo di
Bologna, mons. Carlo Caffarra, successore del grande cardinale
Giacomo Biffi, appartenente alla stessa linea di pensiero forte.
Dei tre l’ultimo a parlare è stato il card. Ratzinger. L’ha
fatto a Roma il 13 maggio nella biblioteca del Senato della
Repubblica italiana, ex Sala capitolare del Chiostro della
Minerva, su invito del presidente del Senato, Marcello Pera. Di
fronte a una platea di politici ha svolto una riflessione dal
tema Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani. I
destini dell’Occidente, di fronte alla crisi d’identità che
investe il continente. Da Erodoto a Carlo Magno, da Bisanzio
alla nascita dello Stato moderno, dal socialismo marxista alla
civiltà tecnico-secolare europea, diffusa per il mondo intero.
Attraverso geografia, storia e teologia, il porporato ha
ripercorso le tappe su cui è costruita l’identità europea fina
ai giorni di oggi. Per il card. Ratzinger il cristianesimo è
minoranza, nell’Europa d’oggi e verosimilmente di domani. Ma
vuole che sia minoranza “creativa”, capace di restituire
vitalità religiosa al Continente, e al mondo intero. Tra il
pessimismo di Oswald Spengler e il volontarismo di Arnold
Toynbee, il custode dell'ortodossia cattolica dichiara di
preferire il secondo.
Il discorso che l’arcivescovo di Bologna, mons. Carlo Caffarra
ha tenuto il 29 aprile, dal tema L'educazione: una sfida
urgente, s'iscrive nella stessa linea di pensiero di quello del
card. Ratzinger. Caffarra ha parlato a un convegno del Centro
sportivo italiano. Ha preso posizione contro i cattivi maestri,
i teorici del “gaio nichislimo che non sanno dire nulla all’uomo
concreto”. Li ha chiamati per nome, compreso il semiologo e
romanziere di fama mondiale Umberto Eco, suscitando accese
reazioni sulla stampa. Ha rilanciato la tesi del grande
liturgista Josef A. Jungmann, secondo il quale educare significa
"introdurre una persona nella realtà". E ha argomentato che
proprio qui sta la difficoltà che ogni educatore incontra nel
far ragionare i ragazzi: in quella “malattia mortale dello
spirito" che è l’abbandono della realtà in cambio della
girandola delle interpretazioni. A giudizio di Caffarra, realtà
e verità si guadagnano o si perdono assieme. La contemporanea
“banalità del male” ha la forma del “fai quel che vuoi” senza
animazione né regola di verità. Non è un caso che Veritatis
Splendor (Lo splendore della verità) sia il nome dell’enciclica
di Giovanni Paolo II dedicata alla teologia morale e nel
contempo dell’Istituto di studi teologici creato dal card.
Giacomo Biffi a Bologna. Proprio il giorno del discorso di
Caffarra si è inaugurata nella sua arcidiocesi anche una nuova
Facoltà teologica, la sesta esistente in Italia al di fuori di
Roma. Bologna è stata per decenni la mecca del progressismo
cattolico conciliare. Oggi sta diventando polo di riferimento
del risveglio della teologia ispirata alla grande tradizione.
Infine, il discorso del Presidente del Senato della Repubblica,
il filosofo Marcello Pera dal tema Il relativismo, il
cristianesimo e l’Occidente. L’ha pronunciato il 12 maggio in un
luogo insolito per un politico: l’Aula Magna della Pontificia
università lateranense, quella che ha per gran cancelliere il
card. Camillo Ruini, vicario generale del papa per la diocesi di
Roma e presidente della Conferenza episcopale italiana; e per
rettore il vescovo Rino Fisichella, estensore della maggiore
enciclica teologica di Giovanni Paolo II, la Fides et ratio
(1998). Pera è stato da loro invitato, in occasione dei 150 anni
di fondazione della Facoltà di diritto civile. Il giorno dopo
lui ha ricambiato, invitando Ratzinger a parlare in una sede
istituzionale della laica Repubblica italiana. Pera prende di
punta il relativismo, come malattia profonda dell’Occidente. Ne
contesta le radici filosofiche. Ma ne ravvisa la presenza
insidiosa anche dentro la Chiesa. Nel conflitto di civiltà che è
stato sferrato contro l’Occidente - dice - “il relativismo
affievolisce le nostre difese culturali e ci prepara o rende
inclini alla resa. Perché ci fa credere che non c’è niente per
cui valga combattere e rischiare”. Nel suo argomentare, il
presidente del Senato si ispira ampiamente a Ratzinger. Cita
anche un altro vescovo teologo, il card. Angelo Scola, ex
rettore della Pontificia università lateranense e oggi patriarca
di Venezia. Dà voce al missionario Piero Gheddo. E naturalmente
echeggia Giovanni Paolo II. Insomma, in questo discorso tenuto
da un filosofo non cattolico, ma amico della Chiesa, ci sono i
nomi di spicco della Chiesa di oggi, Biffi, Caffarra, Ruini e
Fisichella. Su L'Espresso Sandro Magister, presentando i testi
integrali degli interventi di Caffarra, Pera e Ratzinger
conclude: "La squadra c’è e domina il campo, con epicentro Roma.
Il prossimo papa uscirà verosimilmente da questa squadra".
Recentemente, Korazym.org ha pubblicato sia il testo integrale
del discorso di mons. Carlo Caffarra, che le interviste
successive a Il Giornale, Il Foglio e Avvenire. Nei prossimi
giorni riporteremo, in sei parti, i testi di due ulteriori
eventi straordinari nella storia dei rapporti fra Chiesa e Stato
nel nostro Paese. Dopo la Lectio magistralis svolta dal
Presidente del Senato Marcello Pera all’Università Lateranense
il 12 maggio in occasione dei 150 anni di fondazione della
Facoltà di diritto civile, il Prefetto della Congregazione per
la Dottrina della Fede, il cardinale Joseph Ratzinger, ha tenuto
il 13 maggio la sua Lectio magistralis, ospite della seconda
autorità dello Stato.
Alberto
Frizziero
GdS 20 XII 04 -
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