giugno 2003: Convenzione costituente del Partito dei Liberaldemocratici
Riceviamo e pubblichiamo:
Nasce una cosa piccola con una grande ambizione: rappresentare
un pezzo d'Italia che oggi si sente orfana. E' un'Italia
variegata. Fatta di giovani che attendono qualcosa di diverso
per costruire il futuro. Di imprenditori che confidano in una
nuova libertà di operare. Di studiosi che vedono l'Italia andare
indietro nella ricerca. Di cittadini che dopo gli scossoni degli
ultimi anni si aspettano una politica più attenta ai loro
bisogni, o almeno più seria e più onesta. Abbiamo scritto sui
nostri striscioni che c'è un'altra Italia. Un'Italia che oggi
non si sente rappresentata da nessuno dei due schieramenti, che
guarda il futuro preoccupata, a volte angosciata. La nostra
prima ambizione è dare una voce e una rappresentanza all'altra
Italia; rappresentarla, nelle sue speranze e nelle sue
ambizioni.
Questa Italia non è di sinistra, e quindi non si riconosce
nell'Ulivo. Ma da qualche tempo sente un mal di pancia crescente
a riconoscersi nella Casa delle Libertà, e molte volte sceglie
di andare al mare o vota in modo strano. Sono tanti quindi a
chiedere qualcosa di nuovo, a chiedere un'alternativa alla
sinistra diversa da quella che c'è oggi. Noi vogliamo costruire
la casa in cui questi italiani si ritrovano, l'alternativa cui
credono, la novità di cui hanno bisogno. Non è roba da poco,
cari amici. E' un compito enorme, ma bellissimo e entusiasmante.
E per fortuna l'entusiasmo ce l'abbiamo.
Che cosa proponiamo? Voglio intanto dire che cosa non
proponiamo, ma che proprio a questa Italia turbata una
propaganda insistente suggerisce sempre più spesso: quello di
porre la riforma referendaria sul banco degli imputati, e di
dire che se l'Italia è bloccata è perché è stata sbagliata la
scelta del bipolarismo. Vi è oggi una insistente campagna che
dipinge l'Italia degli anni 90 come un paese felice, guidato da
una classe politica illuminata, improvvisamente pugnalato alle
spalle da una riforma elettorale astrusa e da un manipolo di
giudici politicizzati. Cancelliamo le riforme, torniamo al
proporzionale e al vecchio sistema, e l'Italia ritroverà la sua
rotta.
In un paese dalla memoria corta questa idea può fare proseliti;
e nessuno esclude che domani possiamo trovarci a difendere le
nostre riforme. Ma la cosa da dire a questi nostalgici è che
anche noi abbiamo un passato cui guardiamo come modello: ma è
quello di De Gasperi e di Einaudi, della generazione di
cattolici e di laici che hanno costruito la repubblica, hanno
scelto l'economia di mercato ponendo le basi del miracolo
economico, hanno fatto l'Europa e scelto la alleanza atlantica.
Ma non abbiamo alcun rimpianto per quelli che, dilapidando
questo patrimonio, alla fine degli anni 80 hanno distrutto
partiti gloriosi e portato l'Italia sull'orlo del baratro.
Quella classe dirigente aveva portato il debito pubblico a 2
milioni di miliardi, stava uscendo dall'Europa con un deficit
superiore al 12% annuo, aveva permesso una corruzione pubblica
di livello intollerabile. Contro questa politica abbiamo fatto i
referendum e ne siamo orgogliosi; contro questa abbiamo portato
i cittadini a votare, e ci sono andati. E a chi dimentica queste
cose vogliamo ricordare che dopo decenni di instabilità politica
l'Italia ha oggi, grazie al bipolarismo, una straordinaria
stabilità e istituzioni di tipo europeo.
E' invece agli anni 93 - 94, ai primi passi del nuovo sistema
che dobbiamo tornare. Perché lì si è perso un filo che occorre
ritrovare.
Quegli anni presentavano un panorama di partiti che la storia
incoronava come vincitori ma che le cronache vedevano
dissolversi. Si apriva un vuoto al centro dello schieramento.
Noi non riuscimmo a riempirlo. Berlusconi e il Polo ci
riuscirono, e di questo dobbiamo dargliene atto. Ma a quale
prezzo? E, a dieci anni di distanza, tutto questo regge? Con
quale futuro?
Da liberaldemocratici ci consideriamo naturalmente collocati, in
un sistema bipolare, nello schieramento alternativo alla
sinistra. Non vedo perché non possiamo definirlo di centro, se
con questa parola intendiamo non un gruppo che sceglie di volta
in volta con chi allearsi, ma uno stile e una cultura moderati e
liberali. Quello che è certo è che spetta a noi rappresentare le
spinte verso una maggiore liberalizzazione della vita economica,
verso le privatizzazioni, verso la riduzione dello statalismo
che gli ultimi decenni del secolo scorso hanno ovunque dilatato.
In Italia, dove un problema secolare è la debolezza dello stato
e la inefficienza della pubblica amministrazione, il
rafforzamento della statualità è un altro compito essenziale dei
liberaldemocratici. In Europa sono stati i partiti di centro a
costruire l'Unione Europea contro quelli di sinistra. Non è un
caso che a firmare il Trattato di Roma furono un democristiano,
Antonio Segni, e un liberale, Gaetano Martino.
Dopo due anni di governo non si sono fatti passi avanti e sul
settore europeo vi è addirittura un vero e proprio cambiamento
di rotta. Ma vi è di più. L'immobilismo non sembra motivato da
problemi contingenti, ma da problemi insiti nello schieramento.
E' la Casa delle Libertà come è nata che sembra incapace di
portare avanti queste linee. Perché vi è una contraddizione di
fondo tra il modo in cui lo schieramento è nato e si è
sviluppato e la costruzione di una politica autenticamente
liberaldemocratica.
Le contraddizioni le hanno rilevate in tanti e le abbiamo sempre
sottolineate: non si può essere liberali in economia e
monopolisti nell'informazione; un partito azienda non può
ammettere il dibattito politico e sforna necessariamente degli
yesmen; il conflitto di interessi avvelena tutto e toglie forza
e legittimità al governo; se si cancella il confine tra
interesse pubblico e interesse privato si genera obiettivamente
una spinta alla corruzione.
Tutto questo è vero. Ma oggi, più che constatare gli errori
degli altri, noi siamo qui a dire chi siamo, che cosa vogliamo,
che proposte facciamo all'altra Italia. Non siamo venuti a
criticare ma a costruire.
Qualche anno fa qualcuno ha parlato di "liberaldemocrazia dal
volto umano". E' una espressione molto bella. E' quello che
vogliamo. Perché noi pensiamo che l'ampliare gli spazi di
libertà debba ottenere la massima valorizzazione delle risorse
umane, non l'accentuarsi delle differenze o il prevalere
dell'arbitrio. Qualche anni fa ho fatto un giro in Puglia con
l'amico Pier Donato Costa. A Putignano ho visitato un bellissimo
centro disabili, e ho pensato che mai noi liberaldemocratici
dovremo pensare di ridurre gli aiuti a quel centro e ai tanti
che ve ne sono. L'ampliarsi delle libertà deve aiutare tutti,
non solo i più bravi e meno che mai i più furbi. Per questo la
società liberale ha bisogno di regole chiare e di uno Stato
forte che le faccia rispettare.
Le regole innanzi tutto. Facilitata dalla cultura della
telenovela e da una endemica tendenza italiana
all'arrangiamento, ha galoppato in questi anni in Italia l'idea
di una società senza regole, in cui l'unica cosa sia
l'attivismo, il produrre, il successo a qualunque costo e senza
alcun limite. Ma proprio dal paese che ha fatto della libertà il
suo simbolo, gli USA, è arrivato il segnale che la vera libertà
e il vero mercato richiedono regole ferree, uno stato che
vigili, una autorità che le faccia rispettare. La crisi ENRON e
tutto ciò che ne è seguito hanno immediatamente spinto le
istituzioni americane a rafforzare il controllo sulla borsa e
sui meccanismi societari, a moltiplicare le sanzioni, a
rafforzare la vigilanza. Mentre l'Italia cancellava allegramente
il falso in bilancio in America le pene venivano portare a
venticinque anni, e chi conosce quel paese sa che le leggi non
vengono scritte invano. Il mercato, la concorrenza se
abbandonate a sé stesse diventano un Far West. E' la legge e lo
stato che le sta dietro che garantiscono che vinca il migliore e
non il più furbo. Sono sempre la legge e lo stato che vigilano a
che la concorrenza non si trasformi in monopolio. Fu sempre un
giudice americano ad ordinare a Bill Gates di cedere una parte
dell'azienda per non creare un monopolio; la decisione fu poi
modificata, ma nessuno dubitò che quella sentenza difendesse la
concorrenza non punisse la libertà di impresa.
Ma non è facile costruire uno stato che abbia la capacità di
garantire le regole, sia a difesa del mercato, sia in diecimila
altri campi. Per far funzionare la macchina dello Stato
occorrerebbe uno stato in grado di licenziare i fannulloni, e
nessuno finora ci ha provato. Torna allora il discorso dello
stato forte. Ma se non si vogliono usare i carri armati, forte è
lo Stato che gode di una indiscussa autorità morale, di un
prestigio, di una legittimazione. E quindi è lo Stato guidato da
una classe politica che si impone per la sua competenza, la sua
serietà, la sua dedizione alla cosa pubblica. Non mi pare che
tale sia la classe dirigente di oggi, né mi sembra che come tale
la veda il paese.
Due giorni fa Giuliano Ferrara ha scritto su "La Stampa" che il
Berlusconi che nega il conflitto di interessi e fa le leggi ad
personam è sull'onda della opinione degli italiani. Può darsi.
Ma Giuliano Ferrara dimentica che per fortuna c'è un'Italia
seria, riflessiva, che è su una lunghezza d'onda del tutto
diversa. E' una Italia a cui non piace D'Ambrosio che fa troppe
interviste, e si domanda come un giudice può veramente credere
che Giulio Andreotti sia mandante di un assassinio. Ma nello
stesso tempo è un'Italia che rimane sconcertata quando Previti
per mesi e mesi interviene alla Camera tutti i lunedì per non
farsi ascoltare al processo. E' un'Italia incredula quando sente
affermare che tutti i giudici, compresi quelli della Cassazione
che hanno deciso la applicazione della Cirami sono toghe rosse.
E soprattutto è un'Italia che più dello scontro tra i poteri,
più delle deviazioni di questa o quella corrente della
magistratura, considera di fondamentale importanza una cosa
molto semplice: che i politici, legislatori o governanti, siano
persone oneste e al di sopra di ogni sospetto; e pensa quanto
era saggia la vecchia massima, caduta un po' in disuso, che
coloro che avevano scheletri nell'armadio era meglio lasciarli a
casa.
Naturalmente c'è chi pensa che avere una classe politica
inattaccabile, tracciare una netta distinzione tra il pubblico e
il privato, dare ai cittadini la fiducia che le istituzioni
lavorano solo per il bene pubblico, sia una cosa un po'
vecchiotta. Noi crediamo che alcuni principi non invecchino,
anche in un mondo che cambia vorticosamente. Ma crediamo
soprattutto che questo abbia un valore politico, e che sia più
che mai attuale. Perché la ricostruzione dello stato e delle sue
istituzioni è il problema politico numero uno, e lo si fa solo
attorno ad una classe politica prestigiosa, che ispiri consenso
e dia fiducia. Se abbiamo mostrato le gigantografie di De
Gasperi e di Einaudi, di Sturzo e di La Malfa, non era solo per
un omaggio storico. No, vogliamo mandare un messaggio politico
attuale: che è tornando ai valori di fondo di quella
generazione, alla integrità morale di quei personaggi che si
pongono le premesse per la più importante operazione politica,
quella di rilanciare lo Stato e le sue istituzioni.
Di quella grande generazione due cose vogliamo imitare. La prima
è la cultura dei fatti, in contrapposizione alla cultura della
immagine. Il mondo moderno vive in gran parte sul virtuale. Ma
il politico che vive sul virtuale non fa un buon servizio al suo
paese, perché illude invece di risolvere i problemi. Mi ha
raccontato Giulio Andreotti che alle elezioni del 46 De Gasperi,
incontrando i giovani democristiani, fece questo discorso:" Voi
andrete adesso in campagna elettorale; vi do questo consiglio:
promettete un po' meno di quello che pensate di poter
realizzare. Lo dovete fare per onestà. Ma lo dovete fare anche
perché la politica è come il mercato. Se pensate di andarci una
sola volta potete anche vendere pesce marcio. Ma se volete fare
una cosa stabile ricordatevi che la seconda volta le promesse
non mantenute ve le tireranno dietro."
La seconda è la cultura dei valori, rispetto alla esaltazione
del successo economico come unico metro di valutazione del
progresso economico e sociale. L'economia non è tutto nella vita
di un popolo come i soldi non sono tutto nella vita di un uomo.
E nella politica di oggi si respira un po' troppo aria di soldi.
Ma il problema non è solo creare un'Italia più ricca. Forse non
è neppure il più importante. E' fare un'Italia più giusta e più
civile, che recuperi il senso dei limiti e dei doveri, dei
grandi valori della vita personale, come la famiglia, e di
quelli della vita collettiva, come il senso della coesione e
della solidarietà nazionale.
Lavoreremo quindi per una politica meno urlata, ma più concreta;
perché si facciano meno crociate e ci si occupi di più di
risolvere i problemi reali e quotidiani. Ma le battaglie le
faremo sino in fondo, senza mollare di una virgola.
Contrariamente a quello che è stata sinora una prassi costante,
di calare dall'alto idee e programmi, la nostra piattaforma
programmatica e organizzativa la costruiremo assieme. Abbiamo
già indetto per l'autunno una conferenza programmatica ed una
organizzativa. Costruiremo assieme la nostra strategia. Ma
qualcosa la voglio dire subito.
C'è una battaglia che si impone, io credo, e che ci deriva
direttamente dalle vicende referendarie. La grande rivoluzione
di quegli anni non fu solo quella di creare la stabilità che
grazie a noi l'Italia ha raggiunto. Fu anche quella di costruire
una vera democrazia dal basso, in cui il potere di scelta,
espropriato dalla partitocrazia di quegli anni, tornasse al
cittadino. Fu questo lo spirito della elezione diretta del
sindaco. Nei comuni, nelle province e nelle regioni la battaglia
la abbiamo vinta. La nuova forza dei sindaci o dei governatori
non è solo nella stabilità, ma anche nell'investitura popolare
diretta. E questa è il cittadino e la società che la dà e la
decide. Anche la scelta del governo avviene ormai su base
popolare. Ma dove il potere di scelta del cittadino è totalmente
cancellato è nelle candidature al Parlamento, e quindi nella
formazione del Parlamento stesso. Assistiamo oggi ad un
accentramento della candidature che neppure la peggiore
partitocrazia aveva conosciuto. Mentre si predica in tutte le
salse il federalismo, decine di candidature vengono paracadutate
da Roma. I candidati alla Camera e al senato sono scelti su basi
spartitorie dai capi partito. Sapendo di essere dei cooptati,
sono fedeli e sensibili solo al capo, e non agli elettori.
Contro questa vergogna, noi faremo la battaglia le primarie come
tutela del territorio e dell'elettorato. Questa non è una
battaglia di partito. E' una campagna trasversale, per la quale
facciamo appello ai sindaci, come veri interpreti del
territorio, e ai sindaci di tutti i partiti e gli schieramenti
che condividano questa impostazione. Con un primo invito alla
battaglia abbiamo già raccolto oltre 500 adesioni di sindaci.
Cerchiamo di arrivare adesso ad una proposta di legge che abbia
la firma di mille sindaci. Quando presenteremo la legge, mi
piacerebbe scrivere un manifesto: "Dai referendum alle
primarie".
La seconda ha, almeno per quanto mi riguarda, origini più
lontane. Quando, giovane deputato democristiano, entrai a
Montecitorio nel 1976, la prima battaglia politica nella quale
mi trovai spontaneamente coinvolto fu contro il monopolio Rai.
Con un folto gruppo di democristiani e laici ci trovavamo
concordi in una campagna che consideravamo di libertà e di
avanguardia. Avevamo contro il PCI e la segreteria
democristiana. Fiorivano allora le prime tv private e una
straordinaria quantità di radio, molte delle quali legate
all'associazionismo cattolico. Sognavamo una informazione
pluralista, molte voci senza controllo. Ma non abbiamo
combattuto per sostituire il monopolio RAI con il duopolio RAI -
Mediaset, ammesso che duopolio sia ancora. L'abbiamo fatta
perché l'informazione sia veramente pluralistica, con più voci,
senza controlli o condizionamenti. La continuazione di quella
battaglia si chiama oggi privatizzazione della RAI e limiti alla
concentrazione, con un tetto di due reti a soggetto. Era una
battaglia liberale allora quando la facevamo contro il PCI: E'
una battaglia liberale oggi, chiunque vi si opponga.
E ancora l'Europa. L'altro giorno ho ricevuto a Strasburgo un
gruppo di studenti sardi tra i quali alcuni studenti del liceo
Azuni. Ho ricordato loro, ma soprattutto a me stesso, che quando
avevo la loro età ed ero studente all'Azuni veniva firmato il
Trattato di Roma. Come è cambiato il mondo e come è cambiata
l'Europa da allora. Il piccolo convoglio è diventato un gran
treno e i sei paesi stanno per diventare venticinque. Ma
l'unificazione politica che era il vero obiettivo di chi aveva
fatto i Trattati (ricordo le parole di mio padre) è ancora
lontanissima. Eppure mai come oggi appare giusta l'idea che
l'Europa non è solo uno strumento di pace, ma è un grande
veicolo di civiltà; e che solo unendosi gli europei possono
mandare questo messaggio ad un mondo tormentato. Mai come oggi
il progresso economico, soprattutto del Sud, è legato al futuro
dell'Europa. Di fronte a un governo che, dopo essersi proclamato
erede di De Gasperi sembra considerare l'Europa come un
optional, di fronte ai voli pindarici del presidente che dopo
avere litigato con Francia e Germania vuole annettere all'Europa
un Putin che sta pensando ad altro e uno Sharon che è alle prese
con ben altri problemi, noi dichiariamo una linea che è molto
semplice, ma molto di buon senso, e che tante volte è stata
ribadita da quell'uomo di buon senso che è Carlo Azeglio Ciampi:
che l'Europa è la nostra casa, che lì è il nostro futuro, che
certo Chirac è bizzoso e nazionalista e Schroeder è in
difficoltà, ma che questi sono i paesi con i quali si costruisce
il futuro, e che se si vuole rilanciare è dalla Europa dei sei,
da quella che firmò il Trattato di Roma, che bisogna
ricominciare.
Ci muoveremo dunque su queste linee. Gettiamo un seme che è
destinato a chiudere la lunga parentesi che si è aperta nel
1994, a far finire la transizione, e a portare finalmente
l'Italia in un bipolarismo maturo, con una dialettica politica
che si svolga con correttezza nell'ambito di regole ben
definite. Che il bipolarismo di oggi sia ben lontano dall'essere
funzionante lo dicono tutti. Noi diciamo a voce alta un'altra
cosa che tutti sanno, di cui tutti parlano sottovoce, ma che
nessuno, o quasi, ha il coraggio di discutere apertamente: che
la organizzazione di oggi della Casa delle Libertà, congegnata
come è oggi non su una base politica, ma su una singolare e
straordinaria combinazione mediatica e finanziaria di Mediaset e
della personalità di Belusconi è effimera, e rischia di
dissolversi cinque minuti dopo l'uscita di Berlusconi dalla
politica. Ma destinata a dissolversi, si badi, con conseguenze
che possono essere disastrose per gli equilibri generali e per
il bipolarismo; perché la CDL potrà non piacere, come non piace
a noi, ma è necessario che l'area liberaldemocratica sia
organizzata e strutturata.
Noi lavoriamo perché al collante mediatico finanziario si
sostituisca un collante politico fondato su due grandi filoni
che hanno fatto l'Italia e che oggi devono fondersi: il
liberalismo cattolico e il liberalismo laico. Si tratta di
tornare alle idee e ai valori che furono tipici del centrismo
degasperiano. Quando i partiti di centro crollarono negli anni
90, vittoriosi nelle loro idee ma travolti dal peso della
corruzione e dal degrado della classe dirigente, si sarebbe
dovuto salvare il seme sano della vecchia DC e dei vecchi
partiti e trasfonderlo in un contenitore nuovo che rompesse con
la partitocrazia dilagante. Non ci riuscimmo, e alla fine fu
fatto il contrario: si ruppero le radici e si riaprì la finestra
a un fiume di riciclati che erano stati cacciati dalla porta.
Da cattolico liberale mi permetto di rivolgermi con una passione
particolare ai cattolici impegnati in politica. Non penso a una
ricostituzione del partito unico dei cattolici, legato a una
fase storica ormai finita. Rispetto la decisione di tanti amici
che sono nell'Ulivo. Rivendico però l'orgoglio delle nostre
idee. E ai cattolici liberali, ai tanti che come me sono stati
nella Democrazia Cristiana, chiedo soprattutto di non farsi
travolgere da una spinta edonistica e materialistica che oggi
sembra dominante. Il vero liberalismo è intriso di spiritualità,
è intriso di idee. Guai a diventare il partito che deve solo
consentire di arricchirsi. Non ci potrebbe stare mai un vero
liberale. Ancora meno un cattolico liberale.
Può darsi che qualcuno scriva domani sui giornali che è nato il
partito antiberlusconiano. Scriverebbe una cosa inesatta, e,
diciamolo pure, riduttiva. La nostra ambizione è ben più alta:
ridare un'anima alla politica che la sta perdendo; completare il
cambiamento istituzionale in compiuto: porate l'Italia a un vero
bipolarismo e ad una democrazia matura.
Non nascondiamoci le difficoltà. E' una strada lunga e
difficile. Ma non siamo visionari: è una strada realistica.
Combatteremo la battaglia a testa alta. Non ci consideriamo dei
campioni o dei geni. Siamo degli uomini normali che credono
nelle loro idee e non vogliono mollarle. E se qualcuno ci dirà
che già una volta abbiamo perso il biglietto, gli risponderemo
che dopo grandi vittorie abbiamo conosciuto delle sconfitte, ma
che il biglietto dell'onestà, della serietà e delle idee non
l'abbiamo mai perso.
Mario Segni
GdS - 28 VI 03 - www.gazzettadisondrio.it